Questo progetto i cui componenti sono per due terzi di provenienza Fugazi, va maneggiato con cura. Per coloro che sentono ancora la profonda mancanza del gruppo di Washington D.C. il rischio è provare sentimenti e sensazioni ambivalenti, vale a dire malinconia, senso dell’attesa infinita, speranza, illusione e disillusione, grandi aspettative o delusioni. Tuttavia, bisogna usare anche la testa e non approcciarsi a un disco soltanto con il cuore. Questo lavoro dunque deve essere valutato e considerato per quello che è, ovvero solo un progetto di Brendan Canty (batteria) e Joe Lally (basso), base ritmica dei Fugazi, che hanno creato, con il chitarrista jazz, Anthony Pirog. Tuttavia per i fan i sentimenti posso essere gestiti con difficoltà, perché in buona parte delle nove tracce in scaletta, tutte strumentali, è inevitabile trovare il sound dei Fugazi.
Nel resto dell’album sono presenti svisate chitarristiche di Pirog affacciandosi su sonorità tra il jazz e il prog. Prendete l’iniziale “Mythomania” che si dipana lungo le coordinate di un soffusa p-funk-postcore/freejazz o “Quantum path” che è una cavalcata postcore-noise con Pirog di tanto in tanto che parte per la tangente, ma la struttura è quella del gruppo ‘madre’ se non fosse per Pirog che scivola verso svisate poco ortodosse per gli standard fugaziani,; infatti proprio questa traccia sembra un out-take di “The argument”. Sulla stessa lunghezza d’onda troviamo “Serpent tongue” con intrecci e stop’n’go intrisi di rimandi circolari. Tuttavia il ritmo non è sempre così serrato e il trio si concede anche momenti più rilassati in odore di post rock (“Your own world”) e addirittura momenti elettroacustici, senza batteria (“The weaver”). In ogni caso è un bel sentire. Un disco che apre il cuore!
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autore: Vittorio Lannutti