I Mudhoney salgono sul palco, Mark Arm e Steve Turner si guardano negli occhi con compiacenza, mentre il secondo emette le prime note di “You got it”, a quel punto il pubblico ha già intuito cosa sta per accadere, quindi comincia a fermentare. Il succo del concerto è tutto racchiuso in quell’incrociarsi di occhi dei due vecchi compari del grunge e amici da oltre vent’anni. Arm e Turner non si scambieranno più sguardi per il resto del concerto, perché non ne avranno più bisogno, il loro legame professionale ed umano è talmente cementificato che anche non guardandosi i due comunicano e si ascoltano.
Dopo una mezz’oretta di set degli italiani Home che si esprimono con un garage pop intrigante ed eccitante, il gruppo che ha fatto il grunge non si è risparmiato e per un’ora e mezza ha bombardato il suo pubblico, composto da circa cinquecento persone, con feedbacks, noises, assoli e urla. Se per qualcuno il grunge è stato una moda per Arm e soci continua ad essere una ragione di vita, altrimenti perché continuare a cantare “Sweet you thing ain’t sweet non more” o il primo vagito grunge, l’irresistibile “Touch me i’m sick”? Il quartetto di Seattle ha presentato una scaletta quasi tutta improntata sui due periodi migliori del gruppo, vale a dire quello dei primi due album e quello degli ultimi due, con Arm quasi sempre alla chitarra solista, mentre Turner ci ha deliziato con i suoi riff ed i suoi assoli, Dan Peters che con il basso fa un lavoro portentoso, sostenendo, insieme a Maddison, Turner. Il lavoro di Peters, infatti, non è di semplice gregario, dato che spesso parte anche lui in assolo, lasciano al solo Maddison l’onere di gestire il ritmo e ovviamente ci riesce egregiamente. Nella prima mezz’ora del concerto i Mudhoney hanno tenuto il ritmo altissimo, soprattutto a partire da “It is us”, seguita da una “Where is the future” abbastanza fedele, anche se rallentata nella parte centrale. Dal penultimo “Since we’ve become translucent” il quartetto di Seattle trae una “Where the flavor is”, che anche senza fiati viene resa benissimo, anzi con più grinta e la tiratissima “In the winner’s circe”, mentre il finale è dedicato al fulgido passato con la graffiante “Here comes sickness”.
Un modo migliore per ricordare la rivoluzione francese non poteva esserci.
Autore: Vittorio Lannutti
www.myspace.com/mudhoney