No, caro Mirko, non ce la faccio a mettere una pietra sopra la mia passata enfasi sulla Wallace nel parlare dei dischi/artisti che per tale etichetta escono. Tu dici che un “marchio sonoro” non c’è, che il disco lo fanno gli artisti, e va bene. Che gli artisti, giustamente, non sono affatto tutti uguali/equivalenti. Che Wallace, cioè tu, più di stampare i dischi (e occuparti della relativa grafica – scusa se è poco, eh?) non fai.
Eppure – e non è questione di comodità di definizione – una band come gli Anatrofobia non riesco, con tutta la buona volontà, a dissociarla da quella etichetta, quella veste estetico-grafica, persino da quella biografia, così strutturata, che alleghi a ogni disco. Non riesco a immaginare un’altra label che possa pubblicare un disco gli Anatrofobia (altrimenti, se proprio dev’essere, che sia di fuori Italia), e quanti altri sono gli artisti a cui potrei estendere tale discorso. Ok, la smetto prima che privatamente intervenga una tua censura (…).
Occhi e parole al pubblico, allora, per questo quinto lavoro dell’ensemble canavese. Al quale rubo un concetto con cui tale lavoro, e in generale la propria musica, introducono: “disciplina”. Potrei – forse dovrei, deontologicamente – scervellarmi per ore a trovare una personale chiave di lettura, ma è difficile rifiutare un assist così ghiotto – specie se a fornirlo sono i diretti interessati. Anche perché è fosre l’unico mezzo per armonizzare due anime – tra le altre di questa band – dall’estrazione così apparentemente antitetica, come Roberto Sassi (chitarra nei Cardosanto – leggi noise) e Alessio Pisani (fagottista – e trovatemene altri così). Ecco, gli Anatrofobia sembrano quasi avere una vocazione per la conciliazione e la sintetizzazione degli estremi, degli opposti, in una forma che è tanto elastica e free quanto sobria e rigorosa. Il jazz abbraccia la musica colta, ma anche quella “pop-olare” (certo rock “di frontiera”, ma anche un briciolo di tradizione mitteleuropea finchè i fiati-legni saranno della partita).
C’è anche molta solennità nei 7 brani di “Tesa Musica Marginale” (belli “pesi” ‘sti titoli Wallace, eh? – oops!), che sarà anche l’unica via perseguibile per arginare la forza centripeta di ognuna delle citate componenti, ma di qui ad affermare che sia di facile realizzazione ce ne corre. Ovvio che non vi segnalo alcuna traccia su tutte: fruire degli Anatrofobia implica che ci si lasci trascinare dal loro flusso sonoro, dalla loro corrente, relegando a mera convenzionalità pratica quelli che sono inizio e fine di ogni traccia. E’ il film della creatività quello che con “Tesa Musica Marginale” viene proiettato. Forse qualcuno distingue primo e secondo tempo di un buon film?
Autore: Roberto Villani