Ci son voluti dieci anni per vedere un Artista del calibro di Ben Harper a Napoli.
Dieci anni dall’uscita di quell’album, “Fight for your mind” , di una potenza politica e spirituale talmente devastante da consacrare definitivamente il giovane artista statunitense a nuova icona della musica mondiale. E proprio da quest’album Harper ha pescato a mani basse per manifestare le sue idee al pubblico napoletano.
Nella splendida opera di architettura razionalista quale è l’Arena Flegrea (e poi dicono che a Napoli gli spazi per la musica non esistono… l’Arena è del 1938!), il Nostro esordisce con una versione reggae di “Excuse me, Mr.”, atto di accusa contro i signori del mondo che non provano vergogna di fronte all’incalzare della guerra, della povertà e dell’inquinamento. Harper è un Artista poliedrico: nell’arco di tutto il concerto riesce a dosare i vari stili che fanno parte della sua cultura meticcia, intervallando brani rock e funky di rabbia e protesta (“People lead”, “Temporary remedy” e “Ground on down”, con chitarre elettrica e slide) a brani di amore e fede (“Gold to me”, “Amen omen”, con chitarre acustica e slide).
Egli dimostra quanto ha saputo introitare da “padri della musica” quali Hendrix e Redding, ed ancor di più, per l’incisività e la spiritualità dei testi, da Dylan e Marley.
Durante l’esecuzione di “Amen omen”, il Nostro leva le mani verso il cielo ed uno strano gioco di luci proietta la sua immagine ingigantita sulle due torri laterali dell’Arena: la tensione è al massimo della solennità, ed il pubblico, al quale il riservatissimo Harper concederà solo poche parole, è totalmente ipnotizzato dalla sua figura e dalla espressività della sua voce. Tutto sembra fermo; anche le nuvole, per tutta la sera minacciose, sembrano star lassù immobili ad aspettare che si spezzi l’incantesimo.
La parte finale è dominata dalla bellissima ballata che dà il titolo all’ultimo, più completo album (“Diamonds on the inside”), contraddistinta da un garbato ottimismo e da liriche ancor di più “dylaniane”. Nel lungo bis Harper è solo con il pubblico e concede preghiere quali “Blessed to a witness” e “Power of the gospel”.
Da esperto dosatore di tempi musicali e di emozioni, chiude il concerto con l’hit dello scorso anno e con lo stesso, magico ritmo con cui ha aperto la serata: quello del reggae.
“With my own two hands”, canzone di speranza a cambiare il mondo, viene così legata a quello che costituisce il manifesto politico di Bob Marley: “War” (proposizione in musica di un celebre discorso di Haile Selassie)
“UNTIL THE PHILOSOPHY WICH HOLDS ONE RACE SUPERIOR AND ANOTHER INFERIOR IS FINALLY AND PERMANENTLY DISCREDITED AND ABANDONED /
THAT UNTIL THERE ARE NO LONGER FIRST CLASS AND SECOND CLASS CITIZEN OF ANY NATION /
UNTIL THE COLOUR OF A MAN SKIN IS OF NO MORE SIGNIFICANCE THAN THE COLOUR OF HIS EYES /
THAT UNTIL THEIR BASIC HUMAN RIGHTS ARE EQUALLY GUARANTEED TO ALL WITHOUT REGARD TO RACE /
(…) UNTIL THAT DAY THE AFRICAN CONTINENT WILL NOT KNOW PEACE (…).
(Finchè la filosofia che sostiene la superiorità di una razza su un’altra non sarà definitivamente discreditata ed abbandonata / finchè ci saranno cittadini di prima e seconda classe / finchè il colore della pelle è più significativo del colore degli occhi / finchè i diritti fondamentali dell’uomo non saranno garantiti a tutti, a prescindere dalla razza di appartenenza / …fino a quel giorno il continente africano non conoscerà la pace…).
Ancora oggi, purtroppo, c’è chi sostiene che la gente occidentale è superiore a tutte le altre…
Il concerto finisce, il pubblico tributa il suo ringraziamento a Ben Harper and the Innocent Criminals ed esce estasiato.
Adesso può piovere!
Autore: Giampaolo Nocera