Kendrick Lamar ha attraversato un calvario. DAMN., il suo ultimo album, è uscito il 13 aprile 2017, più di 5 anni fa, ma come ci ricorda lui stesso in United in Grief, “1855 days, I’ve been going through something”: i featuring internazionali, le hit pop con i Maroon 5 e Sia, la nascita del network creativo pgLang assieme all’amico regista Dave Free, il periodo di terapia. Sono stati anni di gran fermento. E se tutti parlano del “gran ritorno”, Kendrick non è mai realmente scomparso.
Mr Morale & The Big Steppers è un ‘arrivederci’, un lavoro corale di forte ispirazione biblica. Già dalla copertina, nella foto realizzata da Renell Medrano, spicca Kendrick con indosso una corona di spine. È in piedi, guarda fisso verso la finestra (non visibile), che pare essere l’unica fonte di luce. Lui e sua moglie, sdraiata su un letto, accolgono i figli tra le loro braccia, immersi in una palette che viaggia tra il bianco e il marrone. Tutte le vesti sono bianche. Di vaga allusione al testo sacro pare anche essere l’alias di Kendrick, “Oklama”: secondo un’analisi del podcast Dissect, andrebbe tradotto letteralmente come “al mio popolo”, ma con accezione sacra, come se ci si dovesse rivolgere a Dio o lo si volesse impersonare.
Ma parliamo della musica: 2 sono i dischi, 2 i percorsi da seguire. The Big Steppers per primo, Mr. Morale per secondo. L’inizio del disco è affidato a United In Grief: nasce dalle ceneri un coro da tragedia greca, offre il punto di vista del pubblico e si rivolge direttamente a Kendrick, che si sprigiona in un flow impossibile da arrestare, neanche dal frenetico giro di batteria alla seconda metà del pezzo. Prossima traccia è N95, un poco sorprendente beat trap, colorato da una produzione stellata come quella di Sounwave e Baby Keem, il cuginetto di family ties. Si passa poi a Worldwide Steppers, potente nella sua estrema sintesi. L’incipit è affidato a Kodak Black e ad un forte battito di piedi irregolare, un ‘topos’ che accompagnerà tutto il disco fino alla fine: senza un beat a cui appoggiarsi, Kendrick si affida alla potenza del suo flow. E se verso la fine sembra arrivi un beat, in realtà è solo un’illusione. Die Hard spegne per un attimo quest’aggressività, grazie al ritornello in duetto di Blxst e Amanda Reifer. In Father Time si ripresenta il battito di piedi, stavolta più intenso; a spegnere il fuoco, stavolta, il ritornello di Sampha, primo featuring del disco. Rich Spirit è anticipato da una skit affidata a Kodak Black, ma è come se parlasse Kendrick: racconta della fama dopo il ghetto, le stesse cose che Kendrick ha decantato per più di 10 anni, topos nel rap. Il brano che segue riflette il punto di arrivo di questo percorso, in cui è difficile mantenere in equilibrio tutti gli aspetti della propria vita. In tema anche We Cry Together, che è la rappresentazione della confusione: sentiamo solo le voci che discutono di Kendrick e dell’attrice Taylour Paige sopra un beat di stampo old school. Ogni skit del disco funziona come un brano a sè: le rime sono incastrate in ogni singolo verso e le sezioni rispettano la logica verso-ritornello. We Cry Together non fa eccezione. A chiudere il percorso dei Big Steppers è Purple Hearts. Summer Walker al ritornello, Kendrick ai versi e il leggendario Ghostface Killah del Wu-Tang Clan a concludere. Ancora una volta la produzione di Sounwave lascia senza parole: viaggia in un synth ripetuto che riempie una potente batteria con cadenza RnB. Ghostface Killah appare quando il beat si è dileguato e sono solo i violini a fargli da guida, lasciando poi a Kendrick l’ultima strofa.
Meno coesa pare la sequenza dedicata a Mr. Morale. Apre Count Me Out con lo stesso coro di United in Grief, ma il brano si sviluppa diversamente grazie a una produzione alimentata da sample e loop infiniti, piacevole all’ascolto. Crown è l’ennesimo brano-skit, manca di coinvolgimento ed è eccessivamente lungo (ben 4’24”). Silent Hill è un pezzo di Kodak Black con un featuring di Kendrick Lamar, in cui è il secondo ad adattarsi allo stile del primo. Non è necessariamente un punto a sfavore, ma poteva funzionare ancora meglio come singolo. Savior risolleva gli animi dopo un momento buio. La skit è aperta dallo scrittore tedesco Eckhart Tolle, a cui l’artista riserva un posto speciale, e affidata al giovanissimo Baby Keem in un crescendo di strumenti ad arco bruscamente arrestato da un felt piano. Keem offre ancora una volta la sua versione della scalata verso il successo, senza troppe sorprese. Ma il pezzo è qualcos’altro. Lo governa un coro manipolato e sintetizzato che potrebbe lavorare da solo, come il synth di Worldwide Steppers. Un peccato che sia uno dei brani più corti del secondo disco con soli 3’44”. Auntie Diaries è un’apologia agli individui transgender. Kendrick sembra portare il fardello dell’ignoranza con sé per trasformarla in consapevolezza, in particolare verso l’identità di sua zia, da donna a uomo, e di suo cugino, da Demetrius a Mary-Ann:
“‘Faggot, faggot, faggot’, we can say it together
But only if you let a white girl say ‘nigga’”
Segue Mr. Morale, prodotta interamente da Pharrell Williams. Rabbia e pentimento sono le parole chiave per comprendere il brano, che ruota attorno al tema dello stupro, sparando a zero su chiunque. In Mother I Sober il rapper sviluppa il tema precedente attraverso la storia di sua madre. La sua percezione è maturata nel corso dell’album, la sua sensibilità verso il prossimo è ora più forte che mai. Sussurra al microfono in una confessione che lo chiude in un guscio. A chiudere l’album Mirror, lo statement finale dell’opera di Kendrick. Dopo un periodo molto travagliato della sua vita, il rapper si rivolge direttamente ai suoi cari e ai suoi fan. Kendrick ha passato troppo tempo a preoccuparsi degli altri trascurando sé stesso, è ora che le cose cambino: guardarsi allo specchio, capire chi realmente si è, andare avanti.
Mr. Morale & The Big Steppers non è un lavoro che può essere riassunto in poche battute o in qualche parola. È un complesso intricarsi di storie, significati, influenze, concezioni. Più forte in certi punti, meno in altri, è un disco da percepire come complessivamente solido, figlio di un’attenta maturazione artistica e spirituale. L’ultima opera coesa che Kendrick ci potrà regalare con Top Dawg Entertainment, l’etichetta che lo ha accompagnato fin dagli inizi della sua carriera, ben 17 anni fa.
Articolo di Riccardo Impagliazzo.
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