The Jezabels si formano nel 2007. Heather Shannon (voce), Hayley Mary (tastiere), Samuel Lockwood (chitarra) e Nik Kaloper (batteria), come nel più classico canovaccio indie, si incontrano infatti all’università di Sydney.
I primi passi arrivano con una trilogia di EP, che inizia nel 2009 con The Man Is Dead e She’s So Hard e si conclude nel 2010 con la pubblicazione di Dark Storm. Uscito a fine 2011, Prisoner rappresenta il debutto sulla lunga distanza, un debutto che ha consentito alla band di raccogliere in patria diversi riconoscimenti, tra questi l’Australian Music Prize e la seconda posizione nella classifica di vendite.
Il nome della band deriva da un personaggio biblico è questo rende già l’idea sul tipo di musica che il gruppo australiano propone. Nello stile Jezabels, c’è infatti come un misto di luce e buio con sonorità a tratti malinconiche ed intrise di emotività. Sono proprio questi elementi che separano il quartetto di Sydney da altri gruppi contemporanei.
Attualmente sono pochissime le band indie che si sbilanciano nel suonare un rock così intensamente emotivo ed è proprio questo, a nostro avviso che li ha resi subito molto popolari. L’album si apre con la title track, il suono minaccioso di organo gotico si evolve in un crescendo di impulsi di synth che fanno da tappeto sonoro alla voce inquietante di Mary Hayley.
L’avvio dai toni enfatici lascia subito il passo però ad una sequenza di piccole perle, canzoni brevi e leggere. Endless Summer ha un ritornello orecchiabile e una melodia incantevole. Highway Long segue lo stesso percorso ma con un tocco diverso e con cenni evidenti a Kate Bush. Trycolour ancora una volta cambia passo con il suo ritmo serrato e con il chitarrista Sam Lockwood ad eseguire alcune riff distorti che richiamano i primi U2, quelli dei tempi belli e gloriosi. Rosebud e City Girl adottano un approccio più rilassato, anche se le melodie dolce e amare al tempo stesso peccano un po’ troppo di levigatezza. Nowhere Nobody, con il suo drumming pesante e le tastiere cupe, apre la seconda metà dell’album tornando ad esplorare atmosfere decadenti e territorio più oscuri. Ed è qui si comincia ad avvertire un po’ monotonia che ci lascerà solo nella conclusiva Catch me.
Alla fine dell’ascolto si rimane un po’ interdetti perché sicuramente in Prisoner si intravede una band composta da musicisti di grande talento e in possesso di scrittura fresca e intensa, per non parlare della voce ipnotica di Hayley Mary, ma nonostante tutto questo vi sono alcuni passaggi a vuoto e diversi eccessi che abbassano il livello complessivo dell’album. Ad esempio a volte si esagera tentando di recuperare lo slancio romantico e teatrale di una new wave fine anni ’80, finendo invece per riecheggiare un rock un po’ mainstream (Kate Bush, Sinead O’ Connor, U2, Waterboys). Da questo punto di vista l’album diventa quasi soffocante anche in ragion della eccessiva lunghezza (quasi un’ora).
In parole povere i Jezabels devono ancora maturare e crescere e soprattutto affinare il loro approccio alla musica. Un po’ incerti rimandiamo quindi il giudizio e aspettiamo gli australiani alla prossima prova.
Autore: Alfredo Amodeo