I grandi canatutori statunintensi hanno questa ossessione per la narrazione e vogliono a tutti i costi portare nei loro dischi le loro vite e i loro concittadini. L’artista di Memphis da sempre è entrato in questa magica scia e “The holy Strangers” è l’ultimo capitolo del suo straordinario romanzo.
Micah P. Hinson ha impiegato due anni a scrivere i testi di questo album durante i quali ha dovuto re-imparare a suonare la chitarra a causa di un incidente stradale che gli ha provocato la temporanea paralisi delle braccia.
Dal punto di vista stilistico The Holy Strangers è sulla stessa lunghezza d’onda dei precedenti, vale a dire un folk molto intimo che deve molto tanto al country, quanto alle sonorità da frontiera. I testi in questo caso non sono autobiografici e sono tutti concentrati sulle vicende di una famiglia che vive in un periodo di guerra, dunque Hinson tratta argomenti sia sereni sia tragici.
Dopo l’intro morriconiano di “The temptation” ci si dirige verso la malinconia che evoca i Black Heart Procession con la ballata soffusa di “The great void”, esprimendosi con un folk di altissimo spessore. Con “Lover’s lane” Hinson omaggia apertamente Johnny Cash, mentre rende greve “The years tire on” nella quale intreccia abilmente archi, chitarre e pianoforte, evolvendo il sound verso arie quasi mistiche.
Strugge il bambino che piange in “Oh, spaceman”, tanto da evocare quelli di “The kids” del Lou Reed di “Berlin”, anche se qua il sound è caratterizzato da archi morbidi e da un cambio di registro stilistico che trasforma il brano in una ballata circolare e avvolgente. L’ossessione narcisistica per la bibbia ha indotto Hinson a scrivere un brano intitolato “Micah book one”, resa come uno spoken word, brano che anticipa la greve e ossessiva “The war” e la struggente e delicata “The darling”.
Con “The last song” domina la malinconia e “The memorial day of massacre” caratterizzata da archi cupi e da un sound sporco Hinson centra l’obiettivo di trasmettere la tragedia della perdita e del dopo guerra. Il disco si conclude co la ballata avvolgente di “The lady of Abilene” e con la scarna e lenta “Come by here”. Un disco molto religioso che tratta l’intensità e il senso della vita.
autore: Vittorio Lannutti