La Bella Union ci aveva visto giusto all’esordio, un anno fa, con Katang, e ora continua a scommettere sugli Zun Zun Egui con Shackles’ Gift, secondo e nuovo album pubblicato il 26 Gennaio e prodotto da Andrew Hung (Fuck Buttons). E’ certamente un grande ritorno per la scoppientante, eclettica e difficilmente catalogabile band con base a Bristol ma formata da un gruppo eterogeneo che va dalle Isole Mauritius fino al Giappone: si va dal chitarrista e cantante Kushal Gaya delle Mauritius alla tastierista giapponese Yoshino Shigihara, per concludere con due inglesi semi-puri (come ogni inglese è) come Matthew Jones alla batteria e Luke Mosse al basso.
Per quanto Kushal cerchi di ricordare che gli Zun Zun Egui sono una band inglese che fa rock inglese, è indubitabile che l’influenza della visita all’isola natia, a 700 miglia dal Madagascar, nel bel mezzo dell’Oceano Indiano, in occasione del Festival dell’Indipendenza, nell’ottobre del 2013, abbia influito fortemente su questo album. Intanto gli dà l’impronta “genetica”: come le Mauritius hanno 12 dialetti ufficiali, così la band è etnicamente e culturalmente composita.
Ma composito è soprattutto il genere delle canzoni: un miscuglio ben riuscito di P-Funk, Afrobeat, Etnic Jazz, Tropical, anche se in tutto questo calderone l’impronta funk rock è ben presente e viva, ed è come il collante che tiene il tutto. Lo si sente sin dall’esordio Rigid Man, che pure ha l’intro più afro ed etno di tutto l’album, per svoltare poi verso un funk che diventa esplicitamente debitore dei Red Hot Chilli Peppers in African Tree, paradossalmente la canzone meno afro del disco, tutta costruita sul punk funk appena impreziosito dai cori che ricordano invece i Kings of Leon.
Le percussioni di Ruby ci riportano all’afro spinto, quasi reggae, su cui si insinua a sorpresa un cantato alla Dave Gahan, lobotomico e onirico; I Want to Know esplicita un’altra citazione da un’altra band a cui gli ZZE sono decisamente debitori, ovvero i Queens of Stone Age.
Zun Zun Egui -Shackles-Gift riprende una tradizione musicale mauriziana chiamata seggae, che combina il folk africano con il reggae, qui naturalmente alterata sia dal cantato in inglese sia dall’andamento piuttosto dark e duro, dai ritmi quasi industrial.
Il viaggio, perché di questo si tratta, prosegue con Tickle the Line, ancora un ritorno alla costa atlantica e ai Red Hot in particolare.
Il disco, fin qui stupendo, vivo, dinamico, energico, pulsante come poche cose che si riesce ad ascoltare di questo periodo nell’ambito dell’indie, si conclude con The Sweetest Part of Life, ancora, se possibile, un mix di citazioni (qui compaiono anche i Cold War Kids), con Late Bloomer, unico caso del disco di afro cantato in dialetto Mauriziano, e infine con City Thunder, la più amalgamata track dell’album e forse di tutta la loro produzione, impreziosita da un intro elementare e da un cantato di zeppeliniano ricordo, che si trasforma in un durissimo, psichedelico dub-rock su cui si insinuano tamburi picchiati selvaggiamente e una chitarra suonata in maniera quasi distonica.
Alla recensione del disco d’esordio dicemmo che gli ZZE non descivono in musica un viaggio culturale verso le loro origini etniche, ma sono piuttosto loro stessi questo viaggio: ora, dopo quattro anni, possiamo dire che questo viaggio che loro rappresentano è approdato. Magari, come ogni approdo musicale, lascia da parte gli aspetti più spigolosi e sperimentali (per esempio nel secondo album si canta solo in inglese), e tende a un’uniformità, ma è evidentemente un approdo di cui i quattro ragazzi avevano bisogno per potersi definire. La scelta del rock come definizione di fondo la fa da padrone, ma non si rinuncia al pentolone di stili, generi, ispirazioni.
Ancora, in questo secondo disco, nessuno, a parte che per la lingua, potrebbe intuire di che nazionalità sono gli Zun Zun Egui. E forse, il loro è un tentativo di annullare ogni confine.
www.zunzunegui.org
www.facebook.com/zunzuneguirocks
autore: Francesco Postiglione