Entrare con spocchia in sala, sbadigliare per i primi minuti e poi alla fine della proiezione ritrovarsi con un senso di colpa sulle spalle. Chi si è avvicinato a “Il discorso del re” con le peggiori intenzioni ha dovuto ricredersi perché il film non fa una grinza, narra di un personaggio con uno scopo ed è quanto di più aderente alla forma mentale del cinema classico possa esistere. Il pregiudizio negativo verso il film nasceva dal sospetto che alla commissione degli Oscar si fossero presi una vacanza quando lo hanno scelto miglior film dell’anno; non è Scorsese, Eastwood e nemmeno il lavoro di un giovane esordiente dal talento precoce.
La biografia del re balbuziente Giorgio VI sembra un sub prodotto televisivo destinato al cinema, diretto da Tom Hooper (regista londinese cronicizzato – a giudicare dal curriculum – nel vizio del piccolo schermo), e tacciabile di agiografia come tutti i film che trattano della Storia passando per la porta principale. Invece basta passare sopra alle innumerevoli debolezze narrative e scoprire che il casting perfetto (Colin Firth, il premio Oscar Geoffrey Rush, Helena Bonham Carter) toglie la nave del film alla deriva; non importano i conflitti talmente banalizzati da risultare come cibo roteante nel forno a microonde : già sai quando arriveranno a cottura.
Nonostante questa prevedibilità complessiva “Il discorso del re” scaglia la freccia del finale in maniera precisa, smorza l’aria dello spettatore che prima della sequenza finale giaceva in un sopore sussiegoso. Risuona la settima di Beethoven che salverebbe anche il peggiore film della storia del cinema, mentre il lirismo improvviso getta una enigmaticità sul finale. Ci si sorprende a chiedersi: ce lo farà o no il personaggio a raggiungere il suo scopo ? Quando succede una cosa del genere, il film è arrivato a destinazione nonostante facilonerie imperdonabili e pigrizie varie.
Autore: Roberto Urbani