Puntuale, come al solito ogni due anni, ecco il nuovo album del giovane scozzese, aspirante bardo, Alasdair Roberts. Nel 2005 ci ritrovammo a parlare del suo ‘No Earthly Man’ prodotto da Will Oldham, contenente traditionals britannici riarrangiati con ospiti illustri quali Isobel Campbell e lo stesso Oldham, disco che per il nostro virtuoso chitarrista/cantante rappresentò il salto di qualità dopo una lunga carriera di incisioni domestiche prima negli acerbi Appendix Out e dal 2001 come solista –‘The Amber Gathers’ è il suo numero quarto– e sottolineammo allora l’alto valore di quel disco in chiave folk tradizionale, conservatrice.
Oggi Roberts pubblica un altro buon disco in cui cerca, sempre con i fidi strumentisti Tom Crossley, Gareth Eggie e Gerard Love, di tornare a proporre sue composizioni, e al contempo di togliersi dalla fronte l’etichetta pericolosa di semplice musicista folk tradizionale, bravo ma troppo saldamente ancorato alla musica passato. Sono però problemi inesistenti, avvertiti più dall’etichetta Drag City –che ci tiene a promozionare la svolta pop ottimistica che trasuderebbe da questi 43 minuti di musica– e non dall’artista, poichè dobbiamo constatare che qui Alasdair Roberts non tradisce le proprie inclinazioni artistiche, preparandoci 11 canzoni eleganti, sobrie, in linea con quanto già conosciamo di lui: folk chitarristico bucolico cantato con coinvolgente malinconia che riporta sugli scudi i vecchi immortali Pentangle, Chieftains o John Martyn, vertici di un’epoca –i primi 70– in cui la tradizione britannica volava alta anche nelle vendite.
Inoltre, coincidenza, proprio da qualche mese il folk tradizionale britannico sta vivendo una nuova stagione d’oro, con la pubblicazione negli ultimi tempi di due prestigiosi dischi quali l’acclamato ‘Ys’ dell’arpista americana Johanna Newsom e ‘The Black Swan’ del redivivo chitarrista scozzese Bert Jansh, quest’ultimo inevitabile termine di paragone per il bravo Alasdair Roberts.
Il disco ruota, secondo me, attorno a due fulgide e suggestive ballate in minore buttate lì nel mezzo: ‘I Had a Kiss of the King’s Hand’ e la successiva, mozzafiato, ‘The Cruel War’, quest’ultima in particolare vertice assoluto del lavoro; ma anche nella grazia ed eleganza della giga ‘Let me Lie and Bleed Awhile‘ che svela l’interesse per la musica rinascimentale di Roberts. I suoi testi, cantati con quella caratteristica voce nasale, tipica della musica di campagna d’Albione, raccontano storie semplici a contatto con la natura, al di fuori del tempo, qualche volta con protagonisti che parlano in prima persona, come in ‘I Have A Charm’, sorprendente con quegli accordi blues che spezzano un po’ e ancor di più autorizzano accostamenti con gente come John Renbourn e Bert Jansch.
Autore: Fausto Turi