Curiosa band questi Firewater… curiosa, perchè in una scena musicale infestata da cloni dei Nirvana e falsi maudit, tutti compresi nella loro maschera da ribelli in divisa d’ordinanza, essi invece cercano, ormai dal 1996, una strada personale, senza paura di mettere assieme sonorità che pescano a piene mani nella storia del rock americano con ritmi apparentementi estravaganti, anche di origine est-europea, centro-americana o asiatica… A chi a questo punto sta storcendo la bocca, immaginando chissà quale pretenzioso pasticcio, suggerisco invece di aprire bene le orecchie e di ascoltare: signori, niente paura, questo è rock, di quello vero!
Per capire di cosa sto parlando prendete ad esempio la loro ultimissima uscita, la quinta della loro produzione, Songs we should have written. Già il titolo dichiara apertamente il carattere di tributo. E quindi si presta benissimo per comprendere quali siano le “guide spirituali” di questo ensemble new-yorkese. Si comincia con la trascinante The beat goes on (Sonny & Cher) seguita da, udite! udite! This town, resa famosa da Frank Sinatra. Ovviamente non aspettatevi lo swing di The Voice: Tod A., cantante, bassista e front-man del gruppo, conduce la danza come fosse Jim Morrison. Subito dopo, ecco una notevole versione di Diamonds and Gold di Tom Waits, un sicuro punto di riferimento per la band. A cui fa seguito Folsom prison blues di Johnny Cash, rock’n’roll di purissima fattura nel quale si può apprezzare una volta di più il lavoro degli altri componenti base del gruppo, il batterista Tamir Muskrat e il chitarrista Oren Kaplan. Ma quando sei pronto per una nuova scarica di adrenalina, parte invece un divertito e divertente ska solo strumentale (Storm warning). Le sorprese però non sono finite: tutto ti aspetteresti, tranne che una cover dei Beatles. E invece anche i Fab Four sono presenti, con un’ aspra versione di Hey Bulldog, tratta da Yellow Submarine. A cui dopo un po’ fa da contraltare, e come poteva essere diversamente?, una splendida Paint it black (c’è bisogno di ricordare chi la suonava?), vocalmente “trascinata” da Tod A. e che raggiunge infine il suo climax in un’atmosfera da festa di matrimonio indiana. Prima di questa però c’erano state, tanto per gradire, Some velvet morning (Lee Hazlewood e Nancy Sinatra), in coppia con Britta Phillips, e un’incredibile This little light of mine che da tradizionale canzoncina per bambini viene tramutata in un’acida guitar-song. Si chiude, dopo Is that all there is?, a suo tempo cantata da Peggy Lee, con l’omaggio a un altro “faro” del gruppo, il Robin Hitchcock di I often dream of trains.
Insomma, ottime e varie frequentazioni musicali, come si vede… Ma quel che rende interessante questo disco è che i brani diventano occasione per il gruppo per sviluppare la propria idea musicale.
Naturalmente questa la si può cogliere appieno nella produzione “originale” del gruppo. Giunge a proposito quindi la distribuzione anche in Europa di The man on the burning tightrope, dello scorso anno e già apprezzato da chi aveva avuto occasione di ascoltarlo. Nelle sedici tracce di questo cd c’è infatti tutto il mondo e lo stile dei Firewater. A partire dall’amore per le atmosfere dello spettacolo di strada e per il cabaret:: in ciò evidentemente la lezione di Tom Waits si fa sentire. Basta d’altronde ascoltare tracce come la splendida Too many angels (There’s too many angels, too many angels, above this waning world); l’altrettanto significativa title-track o The notorious & legendary dog & pony show. In questi brani si raggiunge un equilibrio a mio avviso perfetto tra le liriche struggenti e sarcastiche di Tod A., la vocalità roca dello stesso e linee musicali in cui il rock si fonde a strumenti quali l’organo. Ma naturalmente c’è anche altro, a conferma dell’ eclettismo della band: i ritmi dancerecci di Too much (is never enough), con echi latino-americani che ritroviamo anche in Dark days indeed e nello strumentale Ponzi’s revenge, brano in cui peraltro la fanno da padrone gli ottoni, presenti anche nella jazzy The Vegas strip; il country elettrico di Secret; il rock più “tradizionale” di Don’t make it stop; una ballata acida e allo stesso tempo sentimentale come Anything at all.
Ve lo dicevo, no? Curiosa band, questi Firewater…
Per chi volesse ascoltarli dal vivo, appuntamento il 22 febbraio a Milano, Cox 18.
Autore: Sergio Travi