Oltre sette milioni di euro di incasso, poco più di tre milioni e mezzo solo nell’ultimo weekend, ad appena la terza settimana dalla sua uscita. Cinquecentosettantadue gli schermi impegnati nella proiezione dell’opera prima firmata da Paola Cortellesi regista, già laureata come pellicola con il maggiore ricavo dai tempi della pandemia. Prima ancora di dilagare nelle sale del Paese, “C’è ancora domani” aveva già letteralmente sbancato la Festa del Cinema di Roma, conquistando la menzione speciale come miglior opera prima, il premio speciale della giuria e come miglior film votato dal pubblico.
Sono oltre un milione e mezzo gli spettatori finora accorsi al cinema, soprattutto spettatrici, che nel corso delle settimane si sono moltiplicate in un continuo passaparola entusiasta, come le tantissime donne che è facile incontrare alla fine della proiezione, spesso in gruppo, intente a commentare una vicenda vista sullo schermo e però capace di aprire una ferita sulla propria pelle.
Paola Cortellesi strega pubblico e critica, in un coro che inneggia al capolavoro perfetto, capace di riportare gli italiani al cinema, a dimostrazione del fatto che quando c’è qualcosa di davvero interessante la gente si mobilita e va anche al cinema. E cosa c’è di più importante se non il riconoscersi, vedere sullo schermo qualcosa che ci appartiene, che ci riguarda, che abbiamo vissuto?
Delia, la donna sommessa, protagonista del film scritto, girato e interpretato da Paola Cortellesi, è la madre, la nonna, la zia, la vicina che abbiamo conosciuto fin dall’infanzia. È la donna che seppur in maniera diversa, siamo state e che, pur non volendo (o più probabilmente volendo), la società ha provato ad inculcarci. Fattrici, animali da soma, buone a soddisfare i desideri di quell’uomo, brutale, animale, non civilizzato, fatto a “sua” immagine e somiglianza, come il patriarcato docet. Perché è nel sistema patriarcale, quello pienamente in linea con il trinomio Dio, Patria, Famiglia, dove la moglie e i figli sono proprietà e quello che conta è solo il padre, che si inscrive e si sviluppa la vicenda della donna.
Siamo nella Roma del 1946, la guerra è appena alle spalle, in città ai tedeschi si sono alternati gli americani. Solo la fame resta uguale a se stessa, accompagnata da una miseria umana che in taluni non conosce requie.
Sullo schermo, – che nella scelta estetica ricorda il premio Oscar “Roma” di Alfonso Cuarón, con una fotografia patinata, dai toni fortemente contrastati e un grigio che rende i corpi fantasmi, pronti a insidiare le coscienze di chi guarda, senza però esserne capace e forse averne alcuna volontà -, assistiamo alle vicende della povera donna, sartina, ombrellaia e infermiera all’occorrenza e poi anche madre, di tre ragazzini, moglie di un orco (interpretato da un magistrale Valerio Mastandrea) e nuora di un vecchio degno padre del marito (Giorgio Colangeli, nei panni di Ottorino), porco nel midollo e insofferente di fronte a una «brava donna», che non gradisce certi “passaggi di mano” («meglio le cugine», non smetterà di dire fino a un momento prima di crepare, «ché sanno stare al posto loro») e «ha il vizio di parlare troppo».
Paola Cortellesi mette sullo schermo un cast che funziona, – adorabile, tra gli altri, Emanuela Fanelli, nei panni dell’amica fruttivendola – , ma, pure se ti chiami Paola Cortellesi e sei adorata dal pubblico, c’è poco da fare: non basta una buona idea per fare di un buon film, un grande film.
Se qualcuno davvero crede che “C’è ancora domani” possa aver attinto dalla lezione del neorealismo, ritorni a riguardare tutto il Rossellini, il De Sica, lo Zavattini, il Germi, il Visconti che può.
Paola Cortellesi trascina il pubblico con un impianto narrativo buono, nonostante tante, eccessive sbavature, e una scelta nell’accompagnamento musicale discutibile.
A titolo esemplificativo una delle molteplici scene di violenza di cui è contrappuntato il film. Quella in cui la reazione di Ivano nei confronti di Delia è diluita in un balletto, discutibile perché passibile come offensiva e sprezzante di chi la violenza l’ha vissuta e la vive quotidianamente, con i segni sul corpo e nell’anima che non passano, neanche dopo la morte. Sono oltre cento le donne ammazzate nel nostro paese dall’inizio dell’anno per mano del proprio compagno, fratello, padre, figlio. Una ogni tre giorni. Donne vittima di violenza, che muoiono e lo fanno per davvero. Senza nessun rendering o rewind, pronto a farle tornare indietro.
Impressionante Valerio Mastandrea, abbrutito nei panni di Ivano, il marito di Delia, e capace, attraverso di esso, di gridare al pubblico di essere in grado di portare sullo schermo anche personaggi che non sono Valerio Mastandrea. Qui veste le fattezze di un uomo turpe, violento, ferino, basso negli istinti e nella morale, indegno di una vita degna e quindi capace solo di sfogare la propria frustrazione su quanti gli sono intorno, vestendo i panni di una maestà, di un’autorità, di un potere riconosciuto e ottenuto per un fallo del caso, che l’ha voluto maschio, invece che femmina.
E tanto vale per essere dal lato giusto della Storia, o no? Sicuramente vale poco creare un finale “strappa applausi” dopo aver trascinato lo spettatore in un dissidio interiore: “lo fa o non lo fa?”, lasciando il focus della vicenda sullo sfondo e continuando a ribadire un falso storico, così contribuendo ad alimentare questi tempi bui e di passioni tristi con storielle stupide, incapaci di fare la morale se non ai bambini.
E così quello che da più parti qualcuno osa inneggiare come un manifesto femminista, null’altro è che un ottimo agente di dominazione secondaria, quella violenza simbolica, per dirla con le parole del sociologo Pierre Bordieu, che rende proprio le donne motori della conservazione e della preservazione del patriarcato.
Far credere e pensare che quelle donne, all’epoca di Delia, non avessero coscienza politica è un falso storico, che brucia e chiede di essere rivelato. E che cancella il fatto che mentre una parte del Paese ha alacremente lavorato per l’affermazione dei principi base del patriarcato e proprio ora vede in Italia la sua incarnazione in una donna (e su questo si potrebbe aprire un dibattito, ma non è questa la sede), un’altra parte ha lavorato altrettanto alacremente per rompere quegli argini, mettendo in gioco la propria vita per donare alle italiane quei diritti, – a partire da quello al voto -, di cui devono conservarsi fiere difenditrici e, proprio a partire da una tale a consapevolezza, andare avanti, compiendo ancora un passo nel lungo cammino per il riconoscimento di pari diritti e opportunità tra uomini e donne.
Per chi non le conoscesse, le biografie di Teresa Noce, di Angela Bottari, di Lidia Menapace o anche la storia di Franca Viola, solo per fare qualche esempio, potrebbero rivelarsi illuminanti.
E sarebbe allora facile scoprire che, l’altra metà del cielo aveva ampiamente preso coscienza di sé proprio durante la guerra, quando le mogli, le sorelle, le figlie, si sostituirono ai maschi nelle fabbriche, consentendo al Paese di resistere alla fame, alla morte e di immaginare un’Italia diversa, liberata dalla guerra. Una Repubblica democratica, fondata sul Lavoro. Sarà allora semplice venire a conoscenza di come tante ancora appena ragazzine, proprio grazie a quelle donne che avevano conquistato un ruolo nella società, cominciarono a sentirsi qualcuno, invece di qualcosa, e a consentirsi il diritto di esistere e di scegliere per loro stesse.
Fu grazie a quelle donne, che non accettarono di farsi rispedire a casa o di sposare il proprio stupratore, e non meramente grazie alle Delia, che, a partire dal dopoguerra, fu ridata una nuova prospettiva all’Italia. Furono quelle donne che avevano nell’impegno una chiara coscienza e visione politica a rimettere in piedi il Paese. E a farlo senza rinunciare e stare zitte, anche per quelle come Delia, che non sapevano e non potevano conoscere davvero il desiderio e il senso della libertà. Perché al di là dei finali ad effetto, – come quello scambio “specchio- riflesso” degli sguardi tra Delia e la figlia – , sarebbe stato più bello vederlo ribadire che non può esserci libertà a bocca chiusa.
C’è ancora domani
Regia di Paola Cortellesi
Cast: Paola Cortellesi, Valerio Mastandrea, Romana Maggiora Vergano, Emanuela Fanelli, Vinicio Marchioni, Giorgio Colangeli
Genere: Drammatico
Durata 118 minuti.
Distribuzione: Vision Distribution
Sceneggiatura: Furio Andreotti, Giulia Calenda, Paola Cortellesi
Fotografia: Davide Leone
Montaggio: Valentina Mariani, Lele Marchitelli
Produzione: Wildside, Vision Distribution