Carmine Torchia è un cantautore di origini calabresi alla sua seconda prova discografica per Rurale/Audioglobe. Il suo ultimo lavoro ha un titolo semplice, semplicissimo: Bene. Il motivo di questa semplicità è in realtà una voglia di sintesi, un desiderio di ricominciare a incidere dopo una lunga parentesi in cui ha portato in giro la sua musica fatta di poesia, di teatro, di fortissimi scambi culturali e di spazi.
Lo incontro in un bar di piazzale Loreto, a Milano. Sono le sei di sera, alzo su la testa per rendermi conto delle condizioni atmosferiche e in effetti il cielo non promette sereno. C’è un leggero vento che credo provenga da sud, intravedo la barba di Carmine in lontananza che cerca di dribblare qualche passante o qualche macchina parcheggiata in seconda fila. Un saluto, una stretta di mano prima che inizi la chiacchierata.
La prima domanda è sull’arte. Parliamo di musica si, ma anche di teatro e di pittura. Queste discipline nelle tue mani viaggiano separatamente o si mescolano assieme?
Sono convinto che sia importante la qualità dell’idea più che la forma d’espressione; che sia la scrittura di un aforisma, la modulazione di uno spazio, la pittura di una tela o la ricerca di una melodia non fa alcuna differenza. È l’idea anzi che si sceglie la strada. Sono sempre stato un curioso che si diverte a mettere in relazione le cose.
Hai affrontato una sfida live di non poco conto, si chiamava “Piazze d’Italia (sulle tracce di De Chirico)” ed era la fine del 2008. Immagino siano stati tanti i chilometri come tante le persone conosciute in questo viaggio.
Piazze d’Italia mi ha fatto comprendere quanto sia importante oggi recuperare il valore della musica. La modernità ci ha abituati ad un’idea performativa costruita sulla diversità di piani tra attore e pubblico. In “Piazze d’Italia” l’intento era di recuperare una dimensione artistica per la gente e soprattutto in mezzo alla gente, come nelle tragedie greche, in cui l’attore è in una posizione alla pari se non subordinata, su una scena circondata da spettatori. La musica deve ritornare alla strada.
Altri obiettivi erano quelli di riuscire a leggere i nostri spazi urbani e ad interpretare i motivi per cui le piazze erano e sono attualmente sostituite da realtà che non favoriscono gli interscambi sociali come gli odierni centri commerciali. É stata un’esperienza umana molto forte.
Parlami un po’ di te: vieni da Sersale, provincia di Catanzaro, vivi attualmente a Milano. Cosa ti suscitano queste due città, così diverse e così distanti?
Con Sersale ho una relazione di richiamo continuo sia per i luoghi che ho vissuto sia per le mie persone. Milano è una città di passaggio a dire il vero, prima ancora lo è stata Roma. Milano mi ha dato la possibilità di lavorare alle nuove idee che avevo in testa perché qui ho incontrato Peppe Fortugno che è assieme a me il produttore del disco e a Roberta Cartisano che ha collaborato con noi agli arrangiamenti.
Spostarmi mi dà l’impressione di sfuggire all’immobilismo: probabilmente ho una buona capacità di adattamento e un’anima errante da assecondare.
Qualcuno direbbe che anche il rumore metropolitano è musica e fra le migliori…
Si, è vero, ma preferisco altro tipo di musica rispetto a quella prodotta dai clacson delle macchine in fila su viale Monza!
Chapeau bas! Esce per Rurale/Audioglobe il tuo secondo lavoro discografico “bene”. Quando l’ho ascoltato mi è venuto in mente Ciampi, De Andrè e Battiato, tuttavia ti leggo sempre associato alla cosiddetta “scuola romana” di seconda generazione. Vuoi pensarci magari tu a chiarire gli equivoci?
Non è assolutamente un equivoco. La musica nata a Roma negli anni ’90 (Max Gazzè, Riccardo Sinigallia, Niccolò Fabi, Tiromancino…) l’ho seguita con attenzione. Non mi dispiace essere associato a quel tipo di cose. Certo, nella mie tracce c’è altro e su tutto credo che la psichedelia dei Pink Floyd abbia influito non poco sul mio modo di suonare e di intendere la musica. Poi è fuori di dubbio che i cantautori italiani e francesi che ci hanno insegnato cos’è una canzone li ascolto con interesse.
Cantautorato, ma anche teatro canzone e poesia, stando alla tua biografia…
Il teatro è entrato nella mia vicenda per via di alcune amicizie che ho frequentato. È il suo linguaggio che mi ha attratto e l’ho usato quando l’ho ritenuto necessario e funzionale. La poesia invece è uno dei pochi – se non l’unico – genere di cose che leggo. Sono del parere che fra le arti è quella più alta.
Perchè hai voluto dare un titolo così semplice al tuo nuovo disco?
Posso dirti perché ho scelto la parola Bene: mi pare la sintesi risolutiva di un periodo di accadimenti che separa i due album. Bene è una parola aerea, inacchiappabile; inoltre mi piaceva l’idea di metterla in contrapposizione all’immagine di copertina: due schiaccianoci, leve la cui forza rompe dei gusci e porta al cuore delle cose.
Ti occupi anche di aforismi a quanto leggo. Ce n’era uno di Longanesi che suonava più o meno così: l’ironia è il pudore della mia coscienza. Cos’è per te il pudore, questo candore dell’umanità?
Gli aforismi sono un buon esercizio di sintesi del linguaggio, più delle canzoni. Mi diverte così tanto scriverne che certe volte mi sorprendo a ridere da solo. Al pudore spesso si dà una connotazione negativa. Io rispetto questo sentimento, ma il pudore può essere anche un qualcosa che ti affranca e nelle arti preferisco quando non ce n’è traccia. Con questa domanda mi fai pensare a Léo Ferré, Carmelo Bene, Gaber che sono stati enormi perché hanno arginato il pudore, offrendo magari un’immagine delle loro azioni apparentemente violenta – nella grande sensibilità che li ha caratterizzati – ma sicuramente efficace.
È vero! Mi viene in mente il Riccardo III di Bene, coraggioso e invincibile.
Invincibile è la parola giusta. Il coraggio invece lo sostituirei con spudorata incoscienza o indole innata: probabilmente facevano ciò che la natura richiedeva loro di fare.
Recentemente ho visto il Mahoning di Franz Kline e un monocromatico di Rothko. Entrambi mi hanno dato l’idea di spazio e di altezza embrionale e terrificante, come se il Novecento fosse sostanzialmente racchiuso in quelle due opere. Tu che ti intendi di architettura e di spazi, credi si possa ancora parlare di rapporto armonioso, anche per il futuro intendo, tra l’uomo e il suo ambiente?
Gli studi di architettura mi hanno reso molto critico riguardo agli spazi che l’uomo vive. La società ha necessità di creare dei contenitori; gli uomini invece hanno bisogno di creare delle architetture con cui stabilire reciprocità e non dei labirinti in cui disorientarsi.
Conservo tuttora dell’interesse verso lo studio dell’architettura, ma l’approccio che ho con lo spazio immaginato e costruito cerca di essere il più possibile rispettoso dell’individuo prima di tutto.
Ritorniamo all’album e a “case popolari” brano centrale nel dipanarsi delle tracce. Racconta una storia volutamente poco illuminata, che si priva delle spalle di un dio. È a mio parere, la canzone più toccante del disco. Come è nata?
È uscita da un sogno in cui comparivano alcuni amici di Sersale. È l’istantanea di un disagio (che sia esistenziale, politico, economico, sociale) che molti di noi vivono in Italia. Per la prima volta ho messo da parte me stesso raccontando storie altrui. È sicuramente uno dei brani che meglio riassumono la poetica dell’album.
Sottotraccia pare tu voglia dare una ricetta alla crisi…
Ricette o soluzioni forse non ce ne sono. L’unica cosa che potrebbe salvarci è la condivisione.
Ti senti italiano?
La geopolitica è un tranello: sono più a mio agio con il concetto di “apolide”, sebbene la cultura che mi ha formato sia soprattutto italiana. C’è da dire che al contempo ho un’attitudine mediterranea nei confronti dell’esistenza. E chissà che un giorno ‘questo sentimento popolare’ non lo traduca in musica?!
Che valore dai all’autopromozione dei tuoi lavori? Credi sia un elemento indispensabile per chi non ha una major a riempirgli le tasche di carte di credito?
Semplicemente fa parte del mio lavoro. L’autopromozione, come l’autoproduzione dà un senso a quei principi libertari che difendo con amore.
Inizia il tour promozionale il 16 di questo mese se non sbaglio. Cosa ti aspetti dalla gente e dal pubblico che ti ascolterà cantare? Troverai sempre palchi a misura di spettatore, come piace a te?
Il tour è partito il 16 ottobre da Mestre.
Le emozioni sono il prodotto di scambio tra le persone che vengono ai concerti e me che canto. Il momento più alto che ho vissuto è stato quando mi sono accorto che potevo addirittura lavorarci con le emozioni. L’unica cosa che mi aspetto è che possa continuare a farlo.
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autore: Christian Panzano