Certo dalla Famiglia/Akron non è che ti saresti proprio aspettato un concerto così… cioè, senti il disco che è così dolce e delicato, diciamo un qualcosa che pur partendo dal pop dei Radiohead e dal folk del compianto Nick Drake va oltre verso nuove ricche soluzioni sonore, e allora di conseguenza ti aspetti un concerto tranquillo che quasi hai paura di addormentarti. E invece…
Invece cavoli, gli Akron/Family con quell’aria da nerd teneroni tutti casa e chiesa (vedrete poi perché) con i giocattolini sul palco e le barbe di chi o si annoia troppo o è troppo ozioso anche per radersi fanno un casino della madonna. Cioè, di concerti rumorosi ne abbiamo visti eccome, eppure questo è un concerto che spiazza davvero: le chitarre, come i loro padroni, sembrano deboli e indifese ma quello che ne esce fuori è incredibile.
Il materiale presentato a Napoli, oltre a recuperare canzoni dall’album di debutto (omonimo), attinge soprattutto dal recentissimo split (omonimo anche questo) con gli Angels of Light di Michael Gira («Già ce l’ho», dico a fine concerto al barbuto occhialuto e lui, di rimando: «You got off the Internet, uh?»), il mood è quello: suoni acustici che mischiandosi a scorie noize più che elettroniche vanno a formare compatti muri di suono dall’attitudine completamente free e psichedelica.
Questo gli Akron lo mettono subito in chiaro, al secondo pezzo sono già lì a grattugiare come dannati su basso e chitarre fino ad arrivare a dilatazioni massime dov’è il rumore a farla da padrone, un rumore organizzato e preciso da cui ecco stagliarsi in alto voci pure e cristalline come quelle degli angeli: permettetemi di dire che questa è pura bellezza.
A un certo punto te li ritrovi proprio davanti a te, questi quattro americani, a cinque centimetri di distanza, e anche se un attimo prima sei lì che bestemmi che ancora devi comprarti una macchinetta digitale decente, basta poco a dimenticare tutto: sembra di stare davanti a un fuoco di campo (e non manca nemmeno l’effetto sonoro adatto) e loro come bravi chierichetti cantano e suonano proprio le canzoni di chiesa e un po’ ti viene da ridere, perché davanti ai papa-boys che puoi fare se non ridere, ma poi – lo ripeto – ti rendi conto della bellezza della cosa.
La stessa risata nervosa ti prende anche quando dopo una rumorosa – nonché spaziale – cavalcata elettrica («Adesso stiamo andando nel futuro», ripetono claudicanti ma all’unisono i quattro campagnoli dell’apocalisse acustica) che dura poco meno di un quarto d’ora i musicisti si fermano e rimangono immobili, l’aria satura di un silenzio assordante che attimo dopo attimo si allarga fino a uno forse anche due minuti… ché il pubblico intero è così spiazzato che non osa nemmeno l’applauso, forse è spaventato, ma forse più di tutto è semplicemente estasiato: è una cosa così bella questa che devi stare zitto e basta, e godertela.
E poi – meno male – è il bassista a prendere la parola, e a chiedere vi facciamo un’altra canzone? Possiamo?
Ma ne avreste potuto fare anche altre dieci per quanto ci riguarda, cari campagnoli cristiani, ma purtroppo qui a Napoli qualcuno pensa a chiudere la baracca quanto prima e ad andare a letto (troppo) presto… peccato.
Menzione particolare anche per il supporter della serata: l’alcolico Langhorne Slim, un pazzo scatenato che, accompagnato da batterista e contrabbassista, propone un blues’n’roll tanto deragliante quanto sincero che davvero si sarebbe dovuto ballare tutta la sera, come infatti lo stesso secco farà a fine set prodigandosi in scherzose flessioni e balletti assortiti… un grandissimo davvero!
I coretti e gli urli da cowboy si sono sprecati, e chi scrive non vi nasconde che a un certo punto ha pensato che da un momento all’altro si sarebbero potute benissimo materializzate vacche e tori proprio lì davanti ai suoi occhi e lui non se ne sarebbe per niente meravigliato. Yppiiee!!
Autore: Lucio Carbonelli
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