La Galleria Toledo inaugura la sua ricca stagione musicale con una serata dedicata al folk sperimentale, invitando alcuni esponenti della scena statunitense, già affermati o in piena ascesa, per un triplo live set a prezzo speciale. Il piatto forte della serata sono i BF/BS, duo di Providence con all’attivo un paio di album, eppure richiestissimi ed in perenne movimento fra America ed Europa. Di supporto, Christina Carter, voce e chitarra dei texani Charalambides e, solo per la data partenopea, Amy Denio. Nell’attesa, come spesso accade da queste parti, c’è la possibilità di scambiare due chiacchiere con gli artisti, confusi fra il pubblico che attende all’ingresso del locale.
Si inizia con la polistrumentista di Seattle, per la prima volta a Napoli, pur vantando una discografia imponente, più di 30 album in grado di spaziare dalla sonorizzazione di pièce teatrali al free jazz. Pochi giri di parole: la Denio, come dire, vince e convince. Si presenta sul palco che mi ricorda una Pippi Calzelunghe con qualche anno di più, armata di sola chitarra e di un italiano assurdo, di quelli che ti fanno sorridere ad ogni parola. È così contenta di stare lì, in mezzo a noi, che quasi non se ne andrebbe più. Canta di postine filippine fatte fuori dalla mala, costruisce un incubo a misura di Bush, nel quale costringe il poveretto a mangiare una torta di sabbia, mentre lei gli canta “happy birthday to you!’ stonando volutamente. Quando annuncia che a breve tornerà in America per fare il suo dovere di brava cittadina e dare un calcio in culo al petroliere dislessico si prende un sentito applauso dal folto pubblico. Una gran donna, assolutamente libera, sicuramente fuori, e con un flatpicking da fare invidia alla migliore Ani DiFranco.
A seguire Christina Carter, ovvero una grande occasione sprecata. La sua prestazione, brevissima, è funestata da un cavo che non vuole saperne di stare al suo posto, e produce un fastidioso quanto non voluto feedback (scommetto che la Denio ne avrebbe approfittato per una improvvisazione vocale). Il primo pezzo, pochi accordi, uno stupendo mantra sul quale Christina srotola una voce eccezionale, è lasciato a metà, ed è un vero peccato che non ci sia un elettricista in sala. Allora ci prova lei ad aggiustare quello che non va, ma non è serata, e parte anche qualche flash ad immortalarla china dietro le casse. Indispettita, finisce per suonare gli ultimi due pezzi reggendo con la destra il jack e utilizzando la sola mano sinistra. “I’m practicing my one-hand guitar playing”, spiega triste, e l’impressione è che da queste parti non la rivedremo tanto presto.
A chiudere, Jeffrey Alexander (chitarra e live electronics) e Miriam Goldberg (voce e violoncello). La complessa alchimia che regge il recente “Forcefields and Constellations” è lì, intatta: le atmosfere dilatate, l’elettricità trattenuta e finalmente lasciata andare, la confusione che si fa pathos. Il pubblico l’assorbe in silenzio. A tessere le fila del discorso è lei, con quel modo di tirare fuori dalle corde sempre un qualcosa in più, che siano le corde vocali o quelle della viola poco importa. Lui rimane un po’ indietro, perso nei suoi aggeggi con i quali fa dire alla chitarra più cose di quante si possa immaginare. Solo nel finale le parti si capovolgono. Salite sul palco anche Amy e Christina, Alexander ha finalmente campo libero, e può accanirsi sul suo strumento con gesti catartici. Lo ama e lo odia, lo accarezza, lo percuote, ma non riesce a staccarsene. Poi, al culmine della tensione, frantuma l’archetto come fosse una matita, si alza, raccoglie la birra da terra e se ne va. Miriam lo guarda e sorride, sapendo che tornerà di lì a poco, per aggiungere qualche tocco di electronics ad un quadro di rara bellezza. Il cerchio si chiude: il passato ed il futuro del folk sono passati di qui, e non è stato per niente male.
Autore: Andrea Romito