1° agosto 1969: una lettera arriva contemporaneamente alle redazioni del San Francisco Chronicle, del San Francisco Examiner e del Vallejo Times Herald. Il mittente, un certo Zodiac, rivela di essere l’autore dell’efferato delitto che aveva colpito una coppiettina appartata in macchina a Vallejo e di pretendere che la sua lettera sia pubblicata o avrebbe cominciato una carneficina in giro per la California. Comincia così uno dei casi più misteriosi d’America che resta tutt’ora irrisolto e che ha terrorizzato per più di una decina di anni l’intera East Coast, in una voragine di isterismo collettivo, paranoia personale (il caso del presunto serial killer Zodiac diventerà per i protagonisti della vicenda e soprattutto per Graysmith, un’ossesione) e lento oblio. Zodiac si rivela un killer atipico, certo è egocentrico e dispettoso come la maggior parte dei psicopatici con manie omicide e come ogni buon serial killer che si rispetti, invia insieme alla lettera di rivendicazione, un messaggio codificato che servirà a rivelare la sua identità. Ma non ha fascino: è scialbo come chi gli corre dietro e nonostante i goffi tentativi, la finta suspence e la voce appena sospirata, la sua presenza si rivela così eterea da non lasciare alcun segno.
Chi è Zodiac?
Questo è il dilemma che annoia lo spettatore per ben 158 min. costretto a seguire le peripezie di un poco credibile Robert Downey jr (nei panni del cronista “super-figo” del Chronicle, Paul Avery), di un Jake Gyllenhaal come al solito monocorde (nei panni del vignettista sfigato del S. F. Cronicle Robert Graysmith che naturalmente nessuno si “fila” e che invece è in grado di risolvere il primo messaggio decodificato da Zodiac e che quindi prende una “fissa” per il killer e si improvvisa investigatore e ad un cerro punto rimane l’unico a cercarlo ancora) e di Anthony Edwards e Mark Ruffalo (nei panni rispettivamente dei detectivi Bill Armstrong e Dave Toschi) che, poverini, in bilico tra Stursky e Hutch e l’ispettore Colombo, sono oberati dall’onere di tenere in piedi un film che si regge su nulla.
In concorso alla sessantesima edizione del festival di Cannes, l’ultima opera di Fincher (autore dei celeberrimi Seven e Fight Club) è un film inutilmente prolisso, noioso, privo di suspence e soprattutto, scritto male.
Lo sceneggiatore James Vanderbilt, perde i suoi personaggi lungo il racconto (che fine ha fatto Paul Avery?), per poi riprenderli e perderli ancora una volta.
Il risultato è un’irritante altalena di sequenze, alcune delle quali senza seguito, che ammazzano la seppur minima possibilità di creare un po’ di suspence.
Lo Zodiac di Fincher è insomma, un thriller senza thrilling.
Eppure non è la prima volta che la storia del killer (che per davvero ha fatto tremare la California per quasi 10 anni) ispira un film. “Ispettore Callaghan, il caso Scorpio è tuo”, ad esempio, è uno di questi. Ma evidentemente, quella era tutta un’altra storia.
Autore: Michela Aprea