Freak-out. Oltre che queste pagine, e mille altre cose, una rima non casuale con “drop-out”. Emarginato. Condizione difficile da descrivere in musica. Le rappresentazioni più attendibili, finora, erano provenute dagli ultimi (da “Kid A”, se siete d’accordo) Radiohead, nonché dalle sbilenche ibridazioni degli affiliati alla anticon. – circostanze il cui legame stilistico, peraltro, è stato più volte dimostrato.
Oggi a saltare lo steccato della socialità ci prova Andrew Broder da Minneapolis, in arte Fog. Il suo percorso musicale coincde con l’uscita da quello “regolare” di scuola e altre istituzioni. Fu avvistato a suo tempo, ossia una manciata di anni fa, nientemeno che dalla Ninja Tune (di cui la Lex è un sotto-marchio) quand’era in combutta con altri misconosciuti musicisti della sua città – tra cui dosh, visto che abbiamo accennato alla label di Oakland – nel progetto strumentale Lateduster. Poi è passato solista, e tale è rimasto finora. Ed è un polistrumentista, dettaglio da non trascurare.
Polistrumentista e “multi-genre”, come “10th Freakout Avenue” mostra. Al punto da non ravvisare nei relativi 13 brani (più ghost track) un netto baricentro sonoro, come se il “vero” Fog non sia rintracciabile in nessuno di essi in particolare – o meglio, sussistano più anime ispirazionali della stessa persona. L’iniziale ‘Can You Believe It?’ è uno strepitoso saggio di melodie sinistre, oblique, sonnambule e perse in un mondo para-autistico, un drumming confuso e sciatto in sottofondo, che fa rizzare i capelli e chiedersi: chi diavolo ha partorito una roba del genere?! La successiva ‘We’re Winning’ fa un ulteriore passo in questa foschia sonora (Fog, poteva auto-definirsi meglio?, anche se su coordinate “di congiunzione” tra l’electro-indie teutonica e l’avant-hip hop di cui sopra (in versione “cantata”), mentre la title-track ritorna sui passi della opening-track, pur senza suscitare gli stessi brividi. Altra musica con ‘The Rabbit’, dove alla ormai attestata narcolessia si succede una cerniera jazz di clarinetto e un’esplosione di bagliori pop in falsetto in grado di competere con l’adrenalina di “Song 2” dei Blur, salvo ripiegare sull’iniziale introversione
Fin qui il disco può già fare piazza pulita del grosso che c’è in circolazione oggi. Cala però, piuttosto inatteso – e anche inopinato – l’oscurità di un ambient che accentua il distacco tra Broder e il mondo reale, trasformando il disco in un soliloquio. C’è il pregio di un utilizzo ampio – “broad”, se mi passate il gioco di parole – delle fonti sonore a disposizione, siano esse acustiche, elettriche o digitali, e del mantenimento (soprattutto in ‘Holy Holy Holy’, ‘Hummer‘ e ‘The Poor Fella’ – quest’ultima struggente nel suo ricorso “distorto” alla strumentazione classica) del mood profondamente malinconico sotto il cui segno l’album si è aperto. Inevitabile però è l’effetto-diluizione di quanto di buono fatto in principio: “10th Avenue Freakout” comincia a sfilacciarsi, a perdersi, e la scelta di un formato piuttosto considerevole (in vinile sarebbero due LP) inocula la sensazione di qualcosa di cui si attende con impazienza la fine. Che arriva, nella caleidoscopica ‘The Hully Gully’ (e allegata traccia fantasma), ideale ultimo delirio di una mente isolata e schiava del proprio paradossale genio. E’ ok se i soliti suoni vi hanno stufato. Ma alcuni episodi era meglio se fossero rimasti nel cassetto…
Autore: Bob Villani