In tempi di presunta r’n’r renaissance, quando tutto sembra uno speciale di Donna di Repubblica sulla “nuova” NYC post 11 settembre, e blabla su Strokes, White Stripes, The Vines e compagnia schitarrante bella, un ascolto, anche distratto, al secondo album di questo trio di Portland ci riporta invece al nocciolo della questione su quale sia la via maestra per un pop intelligente e autocosciente, a trent’anni quasi dai primi vagiti dei papa’ punk Ramones e Pistols. Se diamo insomma per scontata una nostra adesione incondizionata all’intramontabile formula strofa strofa ritornello bridge strofa ritornello ritornello fine, e’ praticamente dalla nascita che andiamo alla ricerca del disco perfetto in tal senso.
Ma piu’ ascolti e piu’ il pop ti sembra invece un inesauribile mosaico di tasselli sparsi, tutti affascinanti ed eccitanti presi ad uno ad uno, ma incapaci nell’insieme a delineare il paesaggio definitivo. Per fortuna che poi giunsero gli Smiths a codificare tale frammentarieta’ come la legge implicita stessa del songwriting pop, a definire l’episodicita’ della riuscita della composizione come condizione irrinunciabile per ogni racconto da 2 minuti e poco piu’ con chitarre e batteria. Il disco in analisi stende appunto, su un “generalista” e indolente tappeto elettrico-qualunquista della band, un memorabile e giaculatorio cantato solista alla Morrissey, tutto impennate di rabbia, svolazzi sentimentali, requisitorie politico-esistenziali di scuola fugaziana, che finisce per farci attaccare con malcelato orgoglio alla manopola del volume dello stereo in macchina, come a voler ribadire la nostra “superiorita’” nel traffico cittadino. Fatevi un regalo: mettete la terza traccia, How we know, aprite l’armadio, mettetevi davanti allo specchio a scegliere una camicia per la giornata e ricordatevi di tutte le volte che avete scelto QUESTA musica, mentre tutto il resto del mondo preferiva lasciarsi addormentare da QUELL’ ALTRA. Come in un racconto minimalista americano, cominciamo anche noi a individuare e definire la nostra personalita’ attraverso gesti e comportamenti pop. Come in un racconto di Mc Inerney, in un film di Jarmush o in un disco indie-rock, la nostra vita assume i contorni di un raccontino postmoderno di adulti bianchi occidentali, che si innamorano a un concerto in un club, stringono amicizie per un disco difficile da trovare, e non immaginano ancora come sara’ morire. In questo disco troverete tutta l’intelligenza di certo post punk positivo americano, che dagli Husker Du passa per i Dag Nasty e i migliori Fugazi, per arrivare alla malinconia pacificata, quasi beatlesiana, degli ultimi Jets to Brazil. E se poi vogliamo parlare di emocore, anche del migliore, per favore dimenticate Promise Ring o bufale come Hot Water Music: un pezzo come A Stare Like Yours ci porta piuttosto giusto dalle parti dei grandiosi NRA, geniale e misconosciuta leggenda punk olandese. Si puo’ ancora saltellare come degli scemi per la stanza, contenti di essere vivi e fiduciosi nelle proprie capacita’ di “farcela”, senza dubitare della nostra sanita’ mentale, e se questa energia vi viene da un dischetto di tre ragazzini americani, l’aquisto crediamo sia quantomeno consigliabile. Come cantavano i Clash: I’ve been beat up, I’ve been thrown out, but I’m not down, I’ve been shown up, but I’ve grown up and I’m not down, I’m not down…
Autore: Walter Montagna