Sdoganare i cliché e le tematiche che ruotano attorno al pianeta Blues per attualizzarle senza ridurne l’intenzionalità declamatoria è una delle missioni che si prefige il combo italo-berlinese dei Caboose che, con “Hinterland blues”, sono in veste di debuttanti sulla lunga durata. L’offerta del menù comprende otto pezzi che affondano le radici in un Mississippi costruito ad immagine e somiglianza della band, capace di ricreare quel forte senso spiritual(e), che caratterizza l’indole del blues, con sapiente identità semantica. Salendo sulla Caboose in coda ad un treno americano, occorre sorvegliar bene i pezzi dell’album, a cominciare da “Land of no return”, in cui si toccano apici intimistici, tra carezze di chitarra ed armonica ondivaga, dai contorni garbati e rispettosi, sebbene il mood oscuro che si respira non è niente altro che un prender atto del disinganno che comporta un paese di belle speranze che fa naufragare , spesso, le opportunità che presenta. “They call him poet” , dai connotati vellutati, sfiora narrazioni poetiche in chiave folk evocanti le ponderazioni viscerali di certe ballad rock. I toni si fan più cupi e severi in “Suicide song”, marciando regolarmente su rotaie deformate ma mai deraglianti per un viaggio in tutta sicurezza. In “Landslide” sboccia l’armonica con petali più accesi ed il lavorio della slide-guitar è una gran fioritura melodiosa, atta a stemperare la tematica le catastrofi che mamma natura ci impone , facendo emergere tutta la nostra impotenza e fragilità . “Our world” è più ipnotica e mantrica con svisatine inebrianti e sulfuree per denunciare lo sporco e dispotico senso del denaro che riduce in brandelli l’anima del “Nostro mondo”. Basato essenzialmente sullo spoken-word, la title-track è un ossessivo convoglio che fila paranoica per oltre sette minuti, in un crescento di protesta e ribellione. Ora che scorre il sound sferragliato di “Fright train blues” , mi stuzzica piacevoli analogie con “This train will take you anywhere” dei Deacon Blue, benché sul treno dei Caboose c’è posto solo per chi ambisce a mete lontane per obliare un passato fatto di lutti e lacrime, per abbracciare la causa della resurrezione. La conclusiva “Bloodhound” non ha un carattere facile: avviluppata in tessuti psicotici e testarda nella matrice sonora resta, però, un sanguigno Blues a stelle e strisce con un songwriting di notevole fattura. Nonostante si scorgano molte tematiche sensibili e sociali, va precisato che i Caboose non hanno la pretesa di fornire risposte ma si limitano, umilmente, a rimarcare vicende e personaggi dell’oggi, inquinati dall’isolante mondo in cui viviamo e col fermo intento di cogliere al volo l’occasione di salire anche sull’ultima carrozza , rivendicando l’orgoglio di non sentirsi semplice personale di scorta ma passeggeri introspettivamente inclini a dare risposte concrete al proprio vivere.
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autore: Max Casali