Mi accingo a prendere il treno, in volata, che tanto i treni sono fatti per essere presi così. E mentre lo rincorro penso che non può succedere ancora, non si possono cambiare città e inseguire concerti per arrivare sulle note finali dell’ultimo bis. Non sto nella pelle. I Pond li ho visti la prima volta a Buenos Aires lo scorso novembre, in un festival “indie” con un cartellone impressionante (Music Wins Festival). Non li conoscevo – chiedo venia – e non vedevo l’ora di ascoltare i Tame Impala (ma anche i Mogwai, che accompagnano sempre le fasi vitali profonde). Invece mi sono ritrovata in un pomeriggio assolato d’estate porteña ad assistere alle convulsioni psichedeliche di un Nick Allbrook aggrappato al microfono per non cadere (o per farlo), Joe Ryan e Jamie Terry (rispettivamente chitarra e tastiere) con camicie a fiori e occhialoni tondi, un elegante Jay Watson (batteria e voce) e un Julien Barbagallo (basso) con pallone e maglietta del Boca. Li chiamano i fratelli dei Tame Impala. Nati senza dubbio da una loro costola, mi sembra però che la loro libertà di sperimentare sia nettamente superiore (nel caso direi che sono i fratelli pazzi, perché pazzi lo sono sul serio). Me ne sono chiaramente innamorata e nella settimana successiva ho seguito le loro orme nei locali della città, in cui hanno proposto individualmente i loro progetti paralleli.
Entro nel Covo e mi superano a sinistra due altissimi individui e le loro chiome. Salgono sul palco e inizia il concerto sulle note di Waiting around for grace, dal loro ultimo album “Man it feels like space again” (un rimando al singolo più noto dei fratelli di Perth?). Sono tutti un po’ rigidi, psichedelici, sporchi, ma quasi titubanti. È la loro prima volta in Italia, ma il pubblico (uno strano incrocio di generazioni) apprezza: si culla, canta.
Julien Barbagallo non c’è, la sua assenza si nota nei primi pezzi, che però creano un’atmosfera intima, raccolta, empatica. Stiamo aspettando tutti, evidentemente, che arrivi il momento di You broke my cool (da Beard, Wives, Denim del 2012) per iniziare a urlare, a cantare a squarciagola e a muoverci in sincrono perdendo il senso del ritmo. Giant tortoise (dall’omonimo album del 2013) mette tutti d’accordo. La psichedelica è ai massimi del concerto, Nick finalmente ricomincia a non scandire bene le parole (non che ci fosse riuscito bene in precedenza), e Joe Ryan si scatena in assoli hendrixiani (scusate, ho esagerato). Don’t look at the sun or you’ll go blind (da “Psychedelic mango”, 2009) in una versione più acustica lascia spazio anche a Jay Watson e alla sua batteria, ritmata, enfatica. Si sente il passaggio del tempo nei loro pezzi, che nonostante l’entropia hanno oggi maggiore respiro.
Nonostante il tour sia dedicato al nuovo album, sembra che abbiano incastrato i pezzi in scaletta in coincidenza delle pause. Come se in contrasto con il tripudio di rullanti si riuscissero ad apprezzare di più. Le immancabili Elvis’ Flaming Star e Sitting up on a crane, con la voce pulita e sottile di Jay, predispongono i timpani all’ascolto della cover convulsiva di Baby’s on fire di Brian Eno.
L’empatia è totale. Nessun eccesso: niente pogo, niente stage diving. Tutti composti nel proprio metro quadrato saltellano e provano a seguire tutti i ritmi fino a non seguirne nessuno. Sul palco quei strani soggetti si divertono, tanto. Hanno creato quella sinergia che, alla fine del concerto, farà muovere tutti dietro di loro, verso l’uscita.
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autore: Serena Ferraiolo