Recensendo i precedenti “You Gotta Go There To Come Back” e “Language, Sex, Violence, Other ?” si scriveva più o meno che la carriera degli Stereophonics era ormai prevedibile. Non era necessariamente una constatazione negativa, anzi. Semplicemente che la parabola di Kelly Jones e soci è quella tipica del gruppo rock gallese che ha successo in UK, molto meno oltreoceano, e che cerca di levarsi di dosso etichette e cliché appiccicategli dalla stampa locale che ne ha decretato il successo. Questo live fotografa alla perfezione la scelta fatta dai tre gallesi: fare dischi rock, diretti, senza fronzoli, meno “leccati” dei precedenti. Lo si capisce dalla scaletta dei 20 brani proposti in tournèe, dai riff taglienti, dalla struttura rock semplice, dalla voce rauca di Kelly, da alcuni titoli di pezzi composti da una parola sola. Qua e là emerge qualche inedito accenno alla new wave, come in “Dakota”. Altri brani dominano con le note secche , che non si fermano più. Basti ascoltare “Superman”, “Vegas Two Times” e “Pedalpusher” per capire. C’è un pò di Radiohead con “Mr Writer” e “Local Boy In The Photograph”, un po’ dei The Music e Death In Vegas più rock in “Madame Helga”, “ The Bartender And The Thief” e “A Thousand Trees”, un po’ di glam in “Deadhead”. Brani come “Devil” fanno invece pensare che i tre si siano arruffianati (qualcuno direbbe “inculati”) un pezzo della amata America. La virata sonora degli ultimi lavori è infatti portata avanti con prepotenza da pezzi vincenti come il punk-rock sintetico “Doorman” , la fresca “Superman”o la sdolcinata “Maybe Tomorrow” (decidete voi a chi dedicarla, io l’ho già fatto!). Anche la morbidezza acustica di “Traffic” riesce a destare lirismo e sentimenti. L’indecisione della ballata o del pezzo più melodico è evidente inoltre in pezzi come “Hurry Up And Wait “ (che apre la seconda parte del live) e “I’m Alright”. Conciliare infine melodia ed elettricità sporcandolo di blues e rafforzando i percorsi sonori di alcuni pezzi risulta evidente nella incisiva “Too Many Sandwiches” , o nella grintosa “Just Looking”. La scaletta si va a chiudere con il meglio della band e con l’inedita, a tratti lagnosa, “Jayne”. ”Per il resto “Live From Dakota” è un disco che scorre liscio e piacevole, un lavoro comunque di puro rock’n’roll. Un acceleratore sonoro verso trame più intricate. Rock duro, potente e travolgente, ma a tratti facilotto, fitto di sterzate pop-oasis-non-disdegnabili, di divagazioni alla Franz Ferdinand e di echi alla Black Crowes. Un po’ sfrontato e rinnovato, coraggioso, che si inserisce bene con la nuova ondata di gruppi più giovani come Strokes, o di modelli americani per teenager come Eye6 o Fastball. O come i rassomiglianti Ash. Ma forse questo live è qui proprio a smentire tutto questo. Speriamo inoltre che prima o poi tornino a farci respirare una certa pretesa di libertà, l’urgenza di gridare forte quello che c’è da dire, la voglia di raccontare la vita fuori dai binari. Anche perché, da quello che si dice in giro, i tre ultimamente viaggiano un po’ troppo al sicuro percorrendo strade consolidate.
Autore: Marco Ligas Tosi