Esistono dei concetti che valgono nelle leggi del marketing, ma che sfuggono dalle trame senza fili dell’arte. Se sei un artista più ti vedo e meno ti apprezzo, più sei bello e meno sei credibile nella tua forma d’arte. Quel gran pezzo di gnocco di Jared Leto – frontman dei Thirty Seconds to Mars – deve essere vittima di questo strano doppio gioco. Il suo bel faccino viaggia da i canali musicali alle riviste per ragazzine, dalle passerelle della Mostra del Cinema di Venezia (alla 66esima era in concorso con “Mr. Nobody” di Jaco Van Dormael) a quelle della moda internazionale. Insomma, le leggi del marketing lo eleggono elemento perfetto.
Ma ecco la nostra prova del nove: i suoi Thirty Seconds To Mars non sono né apprezzati, né credibili. E non a torto, perché a volte – e mai come in questo caso – i pregiudizi ci sono d’aiuto. Bisogna parlar chiaro: il gruppo di Los Angeles sta benissimo sui poster nelle camerette delle teenager vestite di nero e dei loro compagni con la frangia sugli occhi. Tutto nella norma finché si resta in territorio adolescenziale. Il peggio arriva quando un album come “This Is War” giunge tra le portate del rock internazionale.
Il terzo lavoro in studio della band dei fratelli Leto, figlio di un’impeccabile produzione sotto i nomi di Steve Lillywhite e Mark Ellis, è un prodotto ancor meno considerevole dei precedenti. Jared gioca con la sua voce toccando punti altissimi, ma non ci stupisce; Jared registra le voci dei fan per renderle partecipe in alcune tracce dell’album (come in “Kings and Queens” e “Vox Populi”), ma non ci stupisce ancora; Jared esce in piedi dalla lotta contro la Emi, ma neanche ci stupisce. Insomma, persino i meno pretenziosi chiederanno qualcosa in più da un album che sembra orecchiabile e null’altro. Oppure avranno la soddisfazione di aver avuto ragione sin da subito.
Attenzione: l’aurea paece&loviana che circonda l’opera potrebbe risultare non adatta ai duri di cuore. Per tutto il resto, proteggete le orecchie.
Autore: Micaela De Bernardo