Cantore della fisicità, apostolo caparbio dell’immagine icastica Mel Gibson ritorna in sala con un grande film, “Apocalypto”. Più che grande, grandioso solo come un film hollywoodiano può essere: sublime nella sua paranoica ricerca dello spettacolare nel raccapricciante. Hollywoodianizzare la ferita come scomparto segreto della spettacolarità è l’obiettivo di un regista che, anzitutto, non lo si può non ricordare come l’eroe di “Arma Letale” o come l’interprete scintillante della commedia leggera “What women want”. Un volto di attore americano che nasconde il cuore di tenebra di un fervido religioso pronto a comparare l’immagine vista alla flagellazione, la visione alla pura compenetrazione del dolore. I puritani della critica, a ragione, lo screditano come fosse un mago malsano che vuol far passare per arte le lacerazioni delle viscere. Eppure ci sono impalcature solide su cui si tiene il progetto gibsoniano, tant’è che parte da un aforisma di Durant (“una grande civiltà non viene conquistata fino a quando non si distrugge da sola dal di dentro”) per poi sostenere una tesi, chiara per tutta la durata del film: bisogna consegnare alla sensibilità della celluloide la trionfante implosione di una civiltà, bisogna affidarsi alla macchina del cinema per poter solo immaginare quella fine. Allora “Apocalypto” risponde a Robert Bresson che dice “Rendete visibile quello che, senza di voi, forse non potrebbe mai essere visto”. Come può un film racchiudere il sentimento più vero del cinema che vuole vedere l’invisibile pur rimanendo bieca blasfemia della forma creativa? Come può un metteur en scène così mainstream così americanizzante, scoprirsi un eversore delle regole del sistema cinematografico e, quindi, disporre di una discreta impopolarità?
Fu Gibson a racchiudere dentro lo stessa storia, “The Passion”, la tenera agiografia e l’iconoclastia più selvaggia, appropriandosi del ritmo della sfasatura temporale (il flashback del Gesù che cade soccorso da Maria) e poi unendo a questo gioco convenzionale del racconto un massacro intollerabile allo spettatore: quello che le Scritture scrivono, si permetta il bisticcio, non può essere filmato, molta critica ha obiettato; ma, è Kubrick a dirlo, “tutto ciò che può essere scritto può essere filmato”. Apocalypto, rivelare. È quindi Gibson un rivelatore di ciò che non può essere visto, invisibile solo se lo si deve vedere con gli occhi del censore. È lui stesso a recedere nei suoi propositi quando imbastisce, con degno senso del ritmo, le storie nella Storia: fa prevalere, purtroppo, quelle su questa. Allora emerge lo slittamento continuo tra ruolo di vittima e carnefice fino a renderli le stesse mansioni; Zampa di giaguaro è designato come vittima di un sacrificio, ma si scopre sempre di più il vero carnefice; così come la moglie gravida, costretta nei recessi di una grotta, che da vittima teme i riflessi di un animale feroce e poi lo finisce prontamente con l’aiuto di un corpo contundente. Quello che appesantisce tutto l’ingranaggio è una mediocre capacità di significazione dell’immagine che nega qualunque dirompenza al discorso di Gibson. Le potenzialità rimangono puntualmente imbrigliate nei grovigli della magniloquenza (la score firmata da Horner è la prima imputata) che scolorano le tinte crepuscolari della decadenza, della decomposizione.
P.s.
Il mistero di Gibson s’infittisce : perchè tutto questo acume filologico scegliendo lingue sconosciute? Da dove il rifiuto di americanizzare il linguaggio?
Autore: Roberto Urbani