Sono in due. O, più esattamente, i due (Dan Matz e Jason McNeely) costituiscono il nucleo duro del progetto Windsor For The Derby, uno dei principali agitatori della scena di Austin, Texas. Che uno potrebbe pensare che da quelle parti si occupino solo di petrolio, proprio ed altrui, e invece non è così. Perché a cercare bene, ti accorgi che di movimento ce n’è, e tutto gira intorno a questi due ragazzi, che fanno e disfano il proprio gruppo ad ogni album.
Al quinto disco, “We Fight ‘til Death”, ai due autori si sono aggiunti Timothy White e Ben Cissner, per dare al suono una profondità maggiore, o forse anche per avvicinarsi, anche nella struttura della band, ai gruppi cui più apertamente si ispirano, Cure e Joy Division in testa. La poetica del disco è tutta nella splendida copertina, e nelle scarne note che lo accompagnano. Rosa come il pop, le cui vibrazioni affiorano quando è la voce ad occupare il centro della scena, scuro come la morte del passero capovolto. Un’altra indicazione? Il titolo di un loro lavoro degli inizi, “Difference and Repetition”, dice molto di quello che resta da sapere. Ovvero: iterazione = fantasia. Non si tratta, insomma, del solito disco costruito intorno ad un’unica intuizione, che di quelli ce n’è fin troppi, ma della capacità di creare (e anche bene, eh!) un tessuto sonoro piacevolissimo rimanendo all’interno della stessa idea.
Sul piano sonoro, allora, ai sofisticati arrangiamenti elettrici tipici di certo sound anni ‘80, si somma un timido impiego delle tecnologie digitali. L’effetto è suggestivo nei pezzi meno allineati, come l’introduttiva ‘The Melody of a Fallen Tree’, 8 minuti di trance in salsa new-wave. Come a dire, il dancefloor che si allarga e si fa arena rock. La splendida ‘The Door Is Red’ è la canzone che Robert Smith non riesce più a scrivere da molto, troppo tempo, e chissà che qualche suo fan deluso non possa trovare proprio qui quello che cerca. Si chiude con ‘Flight’, ovvero una lezione di psichedelia in quattro minuti scarsi. Non male, davvero.
Autore: Andrea Romito