di Joel Coen e Ethan Coen, con Michael Stuhlbarg, Richard Kind, Fred Melamed
Premessa: se fate parte di una comunità yiddish vedrete e giudicherete questo film in un modo, forse quello giusto: incazzandovi. Per il sardonico attacco a dogmi, rituali, ortodossia, in due parole integralismo religioso. Se ebrei non siete, cioè appartenete alla schiera dei “goi”, la visuale cambia, e pazienza: accontentatevi della coltivata follia dei Coen. Uscirete dalla sala ridacchiando storditi oppure ammutoliti da un gigantesco BOH! Agli spettatori “non-ebrei”, come i personaggi del film chiamano appunto chi non è figlio di Abramo, sarà infatti concesso al massimo di scrutare in vitro la storia del professor Gopkin secondo l’ordinario alfabeto visivo di cui siamo dotati. E seguirne e decifrarne le “gesta”.
“A Serious man” è un perfetto capo della linea (cine)autunno-inverno della vasta collezione dei fratelli americani. Interessante grappolo di antieroi e mostriciattoli. “Eleganti e sfiziosi” come ha scritto il NYTimes.
Un uomo, un medio-man, bersagliato da una serie pazzesca di rogne, riesce a non ricorrere agli psicofarmaci perché spera nella Parola di Jahvè, rivelata per mezzo dei rabbini, i saggi della comunità. Questi ultimi, salomonici, raccontano storielle, insinuano formule, pontificano con occhietti ieratici, ma risposte non ne danno. Così, il nostro travet della matematica in camicia corta, che aspira e non riesce ad essere un “serious man” come il suo rivale in amore, piagnucola nel buio.
Gli abissi dell’uomo e dell’Eterno ritorno (della sfiga) sono osservati in questa pellicola con avidità da entomologi: di questo possono perfettamente argomentare i non-ebrei. Ma la fine della nostra recensione tocca, appunto, a chi nasce sotto la stella di David. Il gergo, i tic, la lettura cantata della Torah, le idiosincrasie, la teologia sotto attacco, creano una sottotraccia esclusiva. Cominciamo a chiedere lumi agli stessi Joel e Ethan Coen, che in riferimento al prologo iniziale – incentrato su un tradizionale mito yiddish – hanno risposto così ad Antonio D’Orrico di “Sette” del Corriere della sera: “E’ scollegato dal resto del film? Certo, a noi interessava solo far capire che si tratta di una storia di ebrei, non c’è altro nesso”. E non è incoraggiante.
I brothers sono criptici ma hanno grazia e ispirazione. Sfogliano l’album dei ricordi in maniera meno calorica (per fortuna) del Tornatore di “Baaria”: il film è ambientato nel loro 1967, nel loro Minnesota. I coenologi posso essere soddisfatti. Gli altri? Anche. Oppure, BOH, canticchieranno felici i Jefferson Airplane, migliori attori non protagonisti.
…don’t you need somebody to love
wouldn’t you love somebody to love
you better find somebody to loooove
Autore: Alessandro Chetta