Assistere ad un concerto di The Good, the Bad & the Queen (il super gruppo di Damon Albarn, la leggenda afro-beat Tony Allen, l’ex Clash Paul Simonon e il chitarrista Simon Tong dei Verve) a Londra ha un sapore tutto particolare. Per un motivo molto semplice: Londra pervade ogni singola nota, ogni verso delle loro canzoni. C’è Londra nel dipinto di Simonon sul fondale alle spalle della band, nelle melodie agrodolci di Albarn, nel suo accento e nelle sue liriche. E’ nei luoghi espressamente citati (Goldhawk Road, Lord Hill’s Bridge) e in quelli sottintesi (la collina di North Kensington). E’ nelle immagini evocate: i corvi in cielo, il “vecchio canale e i fantasmi che vi volano vicino” (“Herculean”), le strade che dopo il tramonto diventano cupe e oscure (“And when the sunset wheel begins / Turning into the night / I see everything in black and white”, in “Kingdom of Doom”). E’ nelle atmosfere vibranti ma malinconiche, nel songwriting così “british” immerso in un universo di suoni contaminati che riflette l’identità meticcia di una città che è terra di tutti e terra di nessuno.
Ma Londra è anche nel basso di Paul Simenon, in cui senti il pulsare delle arterie di Brixton ed il carico di vibrazioni dub dei suoi immigrati jamaicani. E’ nello stile percussivo del maestro Allen, elegante nelle sue sfumature jazz dal sapore fortemente “speziato”, a ricordare costantemente la natura multietnica e cosmopolita della città. E’ nella chitarra dell’imperturbabile Simon Tong, i cui arpeggi sono rarefatti e avvolgenti come la nebbia nelle mattinate più umide.
Il concerto dura poco, un’ora esatta, ma è incredibilmente intenso. Accompagnati da un quartetto d’archi tutto al femminile, la band mostra qui e lì qualche piccola incertezza, inevitabile conseguenza del suo attuale stato di “stand-by” (non c’è né un tour né un nuovo disco in programma, il concerto di stasera è un evento speciale organizzato per i quarant’anni di attività di Greenpeace).
Ma nessuno, in un Coronet Theatre pieno zeppo (sold out da giorni) sembra accorgersene, ed è giusto così.
Paul Simonon non sembra aver affinato più di tanto la sua tecnica di bassista, dai tempi dei Clash. Spesso e volentieri impugna lo strumento come se fosse un mitra, perfettamente intonato al suo completo gessato da gangster d’altri tempi. Sembra centellinare le note, spesso suonate col pollice, lanciate come proiettili attraverso i sub-woofer dell’impianto.
Damon Albarn è un po’ ingrassato, ma si conferma un performer dotato di raro carisma, sia quando siede al piano, sia quando – in barba alla forma apparentemente poco atletica – salta come un grillo ad un metro da terra durante una versione mozzafiato, quasi post-punk, di “Three Changes”. Ironizza sulle sue scarse doti di chitarrista imbracciando la chitarra acustica in “Soldier’s tale” e ti fa venire semplicemente i brividi quando canta “The Bunting Song” o “Behind the Sun”.
In scaletta tutta la tracklist dell’unico disco fin’ora inciso dal gruppo, e – nei bis – una bellissima versione di “Melancholy Hill” dei Gorillaz e “Mr.Whippy”, la b-side del singolo “Herculean”, su cui viene invitato a cantare Don Letts (già protagonista di un dj-set – a dire il vero assai poco ispirato – prima dell’inizio del live).
Bellissimo concerto, di quelli destinati a restarti impressi negli occhi e nelle orecchie a lungo.
Salito sul bus davanti al decadente centro commerciale di Elephant & Castle per tornare a casa, premo play sul mio lettore mp3. Parte un pezzo di The Good, the Bad & the Queen. Guardo fuori dal finestrino ed è come ritrovarsi in un loro videoclip. E’ come se questa band fosse capace di suonare i colori e l’anima di un’intera città.
Autore: Daniele Lama
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