La reinterpretazione del repertorio di Bob Dylan per molti artisti, americani e non solo, è un momento della verità che prima o poi arriva, un esercizio accademico importante, un omaggio ad un autore riverito, temuto, preso a modello e in qualche caso persino caricato di un ruolo mistico che egli stesso ha spesso esplicitamente rifiutato, ma è anche uno spunto per rivendicare un’appartenenza ad un certo tipo di idea di quale debba essere il ruolo dell’artista, impegnato si, ma anche originale, divertente.
Ben Sidran, da 40 anni in bilico tra jazz, rock, latina, tenta la via personale, facendo suonare quasi tutte le 12 canzoni scelte in una chiave jazz crooner, elegante ma vibrante e blues, in ogni caso affatto distante dal linguaggio musicale praticato saltuariamente dallo stesso Bob Dylan moderno: pensiamo a dischi scintillanti e dalla produzione raffinata come Oh Mercy (1989) Time out of Mind (1997) e Love and Theft (2001); del resto anche la presenza forte dell’organo hammond, delle tastiere e del piano accomuna questo lavoro di Sidran al Dylan recente.
Prima di tutto la scaletta selezionata, da cui di solito si capisce già il grado di spontaneità di questo tipo di operazioni: Ben Sidran sceglie diversi brani relativamente imprevedibili, e non si appiattisce solo sugli anni 60; questo dimostra una conoscenza ed un’attenzione profonda verso Dylan; così tra i primi 4 brani troviamo ‘Everything is Broken’ (1989), ‘Tangled up in Blue’ (1975) e ‘Gotta Serve Somebody’ (1979), oltre alla più prevedibile ‘Highway 61 Revisited’ (1965).
Altre sorprese possono essere ‘On the Road Again’ (1965) e All I really Want to Do (1964), splendide ma pur sempre brani “minori”, se così si può dire, nel repertorio dell’autore.
Inoltre nel disco si respira una buona dose di leggerezza, e la voglia di reinterpretare davvero i brani, ed infatti i momenti più convincenti di Dylan Different sono senz’altro quelli in cui la versione originale quasi si riduce ad un pretesto e basta, come in ‘Maggie’s Farm’ (1976), che da urlato brano di criptica protesta contro il music business e soprattutto la prepotenza talvolta dei fans, si trasforma in una ipnotica e fumosa battuta media.
L’altro brano riuscitissimo è ‘Subterranean Homesick Blues’ (1965), che diventa uno swing dai toni anche hip hop nello stile cantato. Il disco si chiude con una versione invece identica all’originale di ‘Blowin’ in the Wind’ (1963), quasi a voler ribadire l’omaggio al grande artista.
Nel complesso un disco piacevole e riuscito, seppure prossimo al genere AOR (che in America sta per “adult oriented rock”, a seconda dei casi usato in senso dispregiativo o meno), che non è l’ideale, per i giovani, per conoscere Bob Dylan.
Autore: Fausto Turi