Sedia. Che razza di nome è per un gruppo?! Magari fossero stati angolofoni e si fossero, mutatis mutandis, chiamati Chair (gli Helmet si chiamerebbero “Casco”, quindi…) non ce lo saremmo chiesti. Un nome così però fa mistero. E poi l’assenza di un titolo. E l’etichetta di Trezzano Rosa. Diffidenza? Macchè, la solita, maledetta curiosità.
Manco a farlo apposta quel richiamo a Page Hamilton e soci ci avvicina pure alla materia in trattazione. E, sapete, io una chiacchierata con Mirko Spino su quella che può essere la linea artistica della sua label, una volta nella vita, me la sono fatta. Volevi il blues-core malato e selvaggio, eh? Volevi il noise, quello che, pompato a mille, picchia senza pietà? Beh, qualcosa mi dice che questi carneadi devono avercela fatta ad accontentarti.
Un trio, media 23, dalla marca anconitana. Due terzi fanno già musica come From Hands (esteti del rarefatto chiaroscuro ambient-noise – cercateli nel primo dei PO Box 52 di qualche mesetto fa), laddove il terzo, non certo incomodo, viene da tali Vell. 6 tracce, appena 24 minuti. Possono bastare come apnea. Quella a cui i Sedia inchiodano l’ascoltatore con il loro noise furioso, fragoroso, incessante. Non ci sono giri, ricami. Basso chitarra e batteria arrivano dritti sul muso. Sono mazzate pesanti, accordi che non partono e non vanno da nessuna parte, sequenze di martellate più che vero e proprio noise wall. Che ci faccio ancora qui a scrivere? Prendere (e difendersi) o, non molto dignitosamente, lasciare.
Autore: Roberto Villani