Amor Fou. Che è amore pazzo, ma a suono fa un po’ come l’amore che fu. Che c’è stato, una volta, ed ora non lascia tracce intorno, se non una lieve ombra, un ricordo di chi sa che qualcosa manca, ma non sa esattamente cosa.
La band nasce dal sodalizio tra Alessandro Raina (ex voce dei Giardini di Mirò) e Leziero Lescigno (La Crus) e nel 2007 firma l’esordio perfetto, con La stagione del Cannibale: un album che ha sapientemente messo insieme il più riuscito cantautorato italiano (Benvegnù, Tiromancino, De Andrè) con le migliori suggestioni pop e sperimentali d’oltremanica. Nel 2010 gli Amor fou tornano a mettere in atto la stessa potente poetica insieme ai musicisti Paolo Perego e Giuliano Dottori. E confermano.
I Moralisti, secondo disco della band uscito per la EMI il 4 maggio, è il viaggio di uno sguardo che attraversa le anime della penisola e le seziona, scavando a fondo nella loro aridità, fino a trovarne il sangue che un tempo scorreva pulsante. Il viaggio comincia con un addio a Roma, alla giovinezza, alla “Trastevere di brutte cose”; in De Pedis le linee incrociate di basso e chitarra, l’incalzare del ritmo e la malinconia delle note delle tastiere regalano un senso d’urgenza che percorre tutto il disco: è infatti una fuga costretta, una fuga nonostante tutto, intrapresa sempre con lo sguardo volto alle cose che si sono perse e alle speranze che non ci saranno. Se non esiste una speranza, anche la morte diventa dolce forma di liberazione: in Anita questa idea si libera dalla banalità del tragico, dipingendo lo squarcio di un’immagine solo accennata che è già una storia, amara quanto le note di un piano, ma sostenuta dal ritmo deciso della batteria. Per sopravvivere all’amore, si rinuncia all’amore, nello swing di Peccatori in blue Jeans, inno all’amore sensuale (“Noi siamo soli perché ci piace dormire bene e amarci solo con il corpo”) e all’individualismo, misantropo, misogino, anarco-dandy. Meno riuscito del primo, il secondo ritratto che compare nel disco, Il mondo non esiste, una traccia in cui questi bravi storytellers rischiano a tratti di cadere nello stereotipo del cantastorie italiano, e il risultato è quello di un Cremonini che copia Bianconi. Una forte influenza dei Baustelle si sente in Cocaina di domenica, con la voce profonda che canta procedendo per immagini, parole preziose accompagnate dagli accordi acustici della chitarra, raccontando lo squallore e illuminandolo con il sole, nonostante tutto. È con la decima traccia, che gli Amor Fou nascondono la vera sorpresa di questo viaggio da “moralisti”. A.t.t.e.n.u.r.b. è il titolo sibillino dei 3 minuti e 18 eclusivamente strumentali in cui chitarre e tastiere si susseguono veloci in una melodia di fuga attraverso la città disperata, attraverso la folla, suggerita quasi fisicamente dai loop delle voci distorte, incomprensibili, che appaiono improvvise come fantasmi.
A fine canzone non si può che riascoltarla da capo, per essere sicuri di aver sentito bene. E poi sfidare chiunque a trattenere la voce: Geniale.
Questa non è l’unica tendenza sperimentale dichiarata dagli Amor Fou nella loro opera prima ed è sicuramente un dettaglio prezioso, che li distingue e li caratterizza rispetto al panorama del rock alternativo italiano, con cui in comune hanno un innegabile (e talentuso) amore per il racconto ed un certo affascinante maledettismo dei sentimenti.
Il brano più intenso del disco è Filemone e Bauci (traccia sette), tratto da un racconto inedito di Alessandro Raina. Il titolo ricorda il mito ovidiano dei due coniugi che chiesero a Zeus di morire insieme e dal Dio furono trasformati in alberi dai tronchi intrecciati; la canzone racconta il senso dell’amore e di abitudine, ma soprattutto lascia in bocca l’amaro sapore dei sogni disillusi. “Ma non vederlo come il frutto naturale di un banalissimo amore”: è lo stato naturale delle cose, e fa male, ma non fa morire. E in effetti gli Amor fou non sono tornati per vendere speranze all’ingrosso. La canzone si chiude dopo un lungo strascico strumentale, dove la batteria procede come per un’esecuzione. È il passaggio del diventare adulti. È il suicidio dell’utopia bambina. Metamorfosi moralista, unico valore che resta.
Poi arriva Dolmen. È la colonna portante della struttura del disco: la canzone più solida, fatta di toni oscuri, voci doppiate come echi, i suoni inquietanti e quasi gotici delle tastiere, il tempo che picchia forte. La traccia è fatta di un’introspezione che non si piange addosso ma sputa rabbia e poesia.
La poesia è l’ultima a salutare nel disco degli Amor Fou, e l’ultima a chiudere la porta. I Moralisti è un coro di voci bambine mandate in loop, sovrapposte, incrociate, innocenti. Quelli che ancora non hanno visto fuori, che ancora possono credere in qualcosa e, solo per il fatto di esistere, tacitamente, condannano.
Autore: Olga Campofreda