13.03.2013 Secondo giorno di festival. A raccontarci il prestigioso SXSW è un caro amico di Freakout e storico booking agent italiano.
Inizia il secondo giorno della nostra esperienza ad Austin per il South By Southwest Festival, o più amabilmente scritto SXSW. Se vi siete persi la prima parte, vi invito ad andarla a recuperare, perchè è inutile dilungarsi. È venerdì 13 marzo, siamo nel pieno del periodo dello SpringBreak e la città iniziata decisamente a riempirsi. Sebbene molti degli eventi principali siano avvenuti nei giorni passati, le feste maggiori e tutti gli eventi dei prossimi due giorni, non ci faranno rimpiangere la scelta di essere venuti nel weekend.
Ma cominciamo con ordine e facciamo la nostra capatina in città: ormai convinti della tecnica adottata prendiamo la Intestate 35 ignorando Congress Avenue e ci buttiamo nell’East Side, dove parcheggiamo la macchina, da lì a piedi ci mettiamo un attimo per essere a Downtown nel mezzo dell’azione. Il primo passo della giornata, consiste nel presentarsi al banco di uno sponsor di cui non ricordo il nome (un servizio di file storage modello Dropbox, pensato soprattutto per la musica), per rifornirci gratis di birra e tacos con formaggio fuso! Possiamo definirla la colazione dei campioni. Poi sono io ad insistere nei giri, nonostante gli sbuffi della persona che mi accompagna/sopporta. Torniamo al Maggie Mae’s (attirati dalla speranza di fare un pranzo gratis e bere gratis), ma siamo in ritardo. Il buffet ha chiuso, però dopo ben sette anni re-incontro i danesi The Blue Van, che non pare abbiano rinunciato al loro rock’n’roll di matrice americana, e se ben ricordo avevano un discreto seguito negli USA. Oh, beh, sebbene siano stati praticamente miei ospiti a Roma per una settimana (gli avevo lasciato casa), non mi va di intavolare discussioni e salgo al piano di sopra per osservare i promettenti Royal Teeth (nella foto), di cui sento parlare da un bel po’.
La formazione americana non delude affatto, ha un bel sound, ma mi chiedo quanto possa uscire dagli Stati Uniti: poco ma sicuro diventeranno delle star internazionali dato quanto poco ci prendo in questi casi.
Da lì emigriamo verso Brooklyn Vegan: ora dovete sapere che questo non è il nome di un locale, ma bensì di uno dei principali promoter indie di Brooklyn, a New York. Ed è esattamente quello che pensate: Hipsterismo all’ennesima potenza. Promoter di Brooklyn, che è un po’ il Pigneto di New York, Vegani… praticamente manco Niccolò de I Cani avrebbe potuto partorire tanto: saltiamo un attimo il concerto (ci torno dopo), quanto piuttosto parliamo delle tacos (sì, ancora tacos) con formaggio VEGANO…. sì, sì, non vegetariano, ma vegano. Ora non voglio sapere di cosa fosse composto, fatto sta che c’erano gli hipster in totale visibilio per questo prodotto dell’Ingegneria Genetica americana, venduto in simpatici vasetti e che qualcuno stava suggerendo di riportare alla propria madre in Italia. Abbiamo impedito lo scempio. Ma non finisce qui, a condire il tutto, in caso il tacos e il formaggio vegano avessero generato sete, venivano regalate delle ottime bottiglie d’acqua: al retrogusto di cocco o cocco-cioccolato. No, non potete capire senza provarle, ma dovete sapere che in Texas, e in generale, in America, l’acqua è un bene prezioso, costoso quanto la Coca-Cola, e che finalmente capisco perchè ci sia questa fissazione per l’acqua Evian o Perrièr quando compilano i rider, gli Americani. Perchè l’acqua media delle loro parti è un intruglio al retrogusto di ammoniaca imbevibile. E non parliamo dell’acqua dei rubinetti.
Ok, dopo questa parentesi di odio puro, torniamo a parlare della musica: premetto, pensavo di andare a vedere Purity Ring, invece finisco a vedere Diamond Rings. Ok, peccato veniale (insomma), però la band ha un taglio decisamente rock, si presentano in maniera ben diversa dal precedente tour: tutti giacche di pelle e acconciature uscite diritte dagli anni ’80. I Canadesi sono decisamente orecchiabili, divertenti e live meritano. Approvati.
A questo punto, col caldo torrido dell’ora di pranzo che incombe, decido di seguire il consiglio di un mio amico romano, e andare a cercare questi Guards. Arriviamo ad un posto, nell’East Side, chiamato Haus of Hipstamatic. Purtroppo il set dei Guards è già finito, ci offrono a noi poveretti in fila uno strano intruglio di liquore al retrogusto di caffè col ghiaccio (no, non potete capire), che non ce la facciamo a finire, e poi dalla porta del retro osserviamo il concerto di tale Cisco Adler, cantautore californiano che scopriamo essere anche un attore e un minimo famoso da quelle parti. Diciamo che non ne siamo granchè impressionati, seppure il cappellone a larghe falde e gli occhialoni misti al pizzetto alla Johnny Depp (o alla Osvaldo) lo fanno risultare un tipo intrigante.
A questo punto, con sole i tacos al formaggio nella pancia che hanno comunque formato un solido blocco, torniamo a Downtown, passando davanti all’Easy Tiger (locale iper-murato, dove accedi solo con braccialetto), per ascoltare la fine dello show dei The So So Glo’s. In realtà la musica la si può ascoltare tranquillamente dalla strada, e sono quasi tentato di aspettare lo show di Wavves, che seguirà lì più tardi, ma preferisco tirare diritto verso la meta successiva, il piccolo, ignorato, e semi-vuoto Bayou Lounge.
Saltiamo abilmente la fila ordinata davanti allo Stage on 6th (l’anno scorso questa fila era lunga il triplo per uno dei pochissimi spettacoli di Jack White) ed entriamo al semi-desolato Bayou Lounge. La band che vogliamo vedere si chiama The Mowgli’s (nella foto), e l’avevamo scoperta in radio, tra un Lumineers, Of Monsters and Men e Mumford & Sons (pare che in America non ascoltino altro, e tutte le nuove band promettenti, siano cloni di questi). Beh, i The Mowgli’s mi avevano preso con una canzone dal titolo “San Francisco” o qualcosa del genere, e a questo punto, incuriosito, li volevo proprio vedere dal vivo. Wow! Folgorazione, la band non ha una canzone, ma TANTE canzoni, intrattengono il pubblico (che nel mentre è aumentato e uh, abbiamo trovato pure delle casse abbandonate di birra fresca da consumare! Yeah!) e gli otto sul palco si esibiscono in uno show adrenalinico, caloroso, dove i cantanti si scambiano il ruolo più volte e con esso gli strumenti. Le voci si inseguono, e insomma, è una gran bella cosa. La band diventa l’highlight della giornata, e penso che difficilmente verrà scalzata. Sarò piacevolmente sorpreso più tardi, ma ci arriveremo. Ottimi.
Ormai è primo pomeriggio pieno: sole a picco e voglia di trovare ombra. C’è questa svedese, Mø, di cui si parla tanto sui blog, e prima di partire era risuonata anche in Italia: la nuova Lykke Li, a quanto pare. Bhe, saliamo a questo Peckerhead (sempre sulla 6th Street e ad ingresso gratuito), e subito vengo rapito da un miraggio: frigorifero di Red Bull gratuito… ok, chi mi conosce, e chi ha avuto modo di essere in tour con me (e non parliamo di Piergiorgio e del famoso Rock in Idro al Palasharp) sa quanto possa io essere drogato di Red Bull. Non mi pare vero, e così entriamo e aspettiamo l’artista elettropop, ma incappiamo in questi Fol Chen. Un nome che onestamente non mi è nuovo, e che forse corrisponde ad una di quelle band esaltate da NME per un paio di numeri e poi scomparse nell’oblio della massa delle produzioni indie. Sì, ok, carini, ma non ci va di attendere la Danese, e andiamo via.
A questo punto proseguendo sulla 6th Street, senza una reale meta, incappiamo nei Funeral Suits che stanno facendo il load-in da B.D. Riley’s. Il loro fonico è addirittura il responsabile di palco della giornata irlandese e siamo loro graditi ospiti: mentre la band che li precede finisce il set facciamo un salto al prospiciente Buffalo Billiards che offre un buon wi-fi e finiamo nel mezzo di un serie di set acustici e interviste. Fermi tutti ci sono i Fall Out Boy, e il mio cuoricino da fanboy, costringe il mio accompagnatore a subire tutto il set acustico degli americanicissimi, plasticosissimi New Politics (ad una certa, stanchi, andiamo al piano di sopra e troviamo questi Churchill, che suonano nel locale pieno di gente, e ce li appuntiamo che non sembrano troppo male, come non erano sembrati troppo male i Royal Teeth… insomma avete capito). Torniamo di sotto ma dei Fall Out Boy ancora nessuna traccia, e ancora questi New Politics che suonano. Non posso deludere i Funeral Suits e così torniamo da loro (la band che aveva suonato prima si chiamava Delorentos, anch’essi irlandesi, e li avevo letti tempo fa da qualche parte su qualche blog, ed erano un minimo popolari. qualche tempo fa). Ma ecco, che senza che ce ne rendiamo conto, sul palco di questo minuscolo pub, salgono gli Ash! Sì, proprio loro! Nel mezzo del pomeriggio caldo della primavera texana, gli irlandesi sono sul palco di questo pub! Sì, un pub, piccolo, minuscolo, caldo, su di un palco che accoglie a malapena la batteria e gli amplificatori di basso e chitarra. Ad un centimetro dal naso vederli suonare è quasi commovente. Sì, li avevo visti al Roma Vintage, due anni fa, ero stato nel backstage, ma la sensazione che si prova a vederli suonare così è indescrivibile. Partono subito le foto, gli upload su Instagram e gli sms spediti in Italia, con il buon cantante de I Mostri che dice che non è possibile, che non sono loro. E noi accenniamo il pogo su Girls From Mars. È amore.
Usciamo nel caldo della primavera texana, e siamo felici e soddisfatti: perlomeno per me, ho visto una delle mie band preferite e ora c’è bisogno di una bella rinfrescata. Piombiamo nel The 512 Bar a bere una birra fredda (ovviamente gratis, in quanto offerta dallo sponsor), osserviamo l’esibizione di tale A. Tom Collins (di cui ricordo solo il nome, sorry) e poi ripassiamo davanti al Friends, il locale dell’ambasciata canadese, dove assistiamo all’esibizione degli interessanti Poor Young Things (nella foto).
Da qui procediamo verso il West West Side, dove la sera prima avevamo visto Reignwolf, ma la nostra meta ci è preclusa dalla mancanza di braccialetti, torniamo scornati sui nostri passi e incrociamo un tipo vestito da prete circondato da tipi armati di telecamera. Lo guardiamo incuriositi e poi lo salutiamo, è Jesse “The Devil” Hughes, il cantante degli Eagles of Death Metal, nostro amico di vecchissima data, con cui finiamo a parlare del Papa, del suo essere diventato un pastore (sì, è un prete), e finiamo a parlare di Totti e della Chiesa Cattolica davanti alle telecamere di Vice. Ora aspetto di vedere questo video terminare su Youtube per essere preso in giro da tutti.
Salutiamo Jesse che mi lascia il suo numero americano e ci invita al suo spettacolo serale per il festival di Live Nation e torniamo nel West Side, passiamo davanti allo Stage on 6th, dove vediamo una numerosa folla accalcata e dalla finestra del locale, spalancata sulla strada, si vedono e sentono chiaramente degli arzilli vecchietti che suonano e mandano in visibilio la folla: sono i The Zombies e non celando un ghigno ci piazziamo fuori dalla finestra ad assistere all’esibizione di un pezzo della storia della musica, prima di proseguire per la prossima tappa, scelta dal mio compagno di viaggio.
Nel mezzo del parcheggio desolato, dove sorge il Red Bull Sound Select (e dove NON DANNO Red Bull gratis) si erge un palco maestoso, bello e sul quale suonano i Little Barrie: gli inglesi sono vestiti da perfetti cowboy, ma falliscono miseramente nell’attirare l’attenzione dei pochi astanti (il giorno prima per Chanche The Rapper era pieno, alla stessa ora) e noi li ascoltiamo, io come fosse una specie di punizione, il mio compagno di viaggio cercando disperatamente di trovare qualcosa di buono in loro: sì, il loro primo singolo dal primo album. Ormai qualcosa risalente a sei anni fa?
E’ ora di mangiare e torniamo nell’East Side per sfamarci con la cucina di Cheer Up Charlie’s. Tutto quello che un vegano vorrebbe e non ha mai osato chiedere: e devo dire, cedo anch’io. Alla fine con tutte le salsette, il sapore di cartone è ben celato. Inevitabilmente il mio pensiero va al mio amico Bostik.
Decidiamo di finire la serata nella parte vicino al Red River dell’East Side, dove si trovano alcuni dei party più interessanti. Dopo l’ora di cena le file per entrare sono interminabili e ci assestiamo al Bungalow, dove stanno suonano dei rocker americani di stampo nu folk, chiamati The Roosevelts. Da queste parti te li danno al chilo.
Torniamo a Downtown, obiettivo lo spettacolo di Fitz & The Tantrums e passiamo di nuovo per i locali precedentemente visitati. Al B.D. Rilye’s ho l’occasione di cogliere i Wet Nuns (nella foto), e gli Inglesi mi colpiscono con la loro carica rock’n’roll. Un bello spettacolo, veramente potente, che conferma quanto di buono sentito su di loro. Ci fermiamo un attimo a riposare al Friends (dove l’ingresso è libero), e sentiamo i Cold Warps suonare. Forse è la scarsa attenzione, ma non ci colpiscono più di tanto.
Arriviamo così in zona del locale dove si tiene il concerto dei Fitz & The Tantrums, una band quasi sconosciuta dalle nostre parti, ma che in America è assurta al ruolo di band di culto. Purtroppo la fila è impossibile e inoltre per entrare si paga, e anche parecchio. Ben venti dollari, che per uno show da quelle parti è una discreta cifra. Delusi torniamo indietro e al Jackalope’s ci facciamo altre due birre e scrocchiamo il wi-fi per pianificare la prossima mossa.
Proviamo ad andare a vedere i Merchandise, e lungo la strada passiamo prima al Rusty’s, dove seguiamo lo show di Tashaki Miyaki. Tanto ci avevamo impressionato l’anno prima, quanto li troviamo una delusione quest’anno. Forse è il fatto che in questo anno non siano riusciti ad emergere come ci si aspettava, il cambio di formazione, chissà? Comunque lasciamo propria una impressione negativa e una riflessione su come funziona l’industria musicale. Nella stanza accanto, intanto, parte il concerto di Marnie Stern. La Regina della tecnica dello Shredding, si lancia in un’esibizione tecnicamente impeccabile, ma stanca. Alla batteria il batterista degli Oneida, sembra dare una marcia in più all’esibizione di Marnie e lo show è gradevole, sebbene non del genere da me preferito.
Proseguiamo verso l’Upper West Side, e passiamo nuovamente vicino all’Heart of Texas Rockfest, dove vediamo suonare i Remington. La tipica band BORA americana. Non saprei come altro definirla. In sé per sé, forse meglio di tante band di grido ma, no, non ci piacciono.
Delusi dall’impossibilità di accedere ai vari locali dell’Upper West Side, torniamo verso la zona del fiume, sperando che le file mostruose siano in qualche modo diminuite (o alle brutte tornare al Bungalow o da Cheer Up Charlie’s). Passiamo vicino all’Annex, giusto in tempo per sentire l’impianto che esplode durante l’esibizione di tale Jonny Craig, nel locale pieno di bimbi emo (tra l’altro poco prima si erano esibiti i bresciani Upon This Dawning nello stesso posto, un’altra ottima esportazione italiana, che però non è stata per niente celebrata come altre, e che quindi voglio pensarci io: Bravi Ragazzi!).
Oltrepassiamo lo stage della Doritos (un palco costruito all’interno di un enorme distributore di patatine, nella cui area regalano PATATINE, ma no?), mentre si stanno esibendo i The Bots. La battuta che viene spontanea è che sembrano i The Cyborgs, ma con i capelli afro al posto degli elmetti da fabbri.
Torniamo così nella zona fluviale puntano al Bar 96 e al Clive Bar, da cui precedentemente eravamo stati esclusi dalle lunghissime file, che ancora persistono: le recinzioni sono quello che sono, però, poco meglio di quelle che circondavano l’Hotel Vegas tramite le quali abbiamo visto l’esibizione dei Black Lips. Così assistiamo tranquillamente al finale dello spettacolo dei Metz, che impressionano per il sound, e capiamo bene perchè la Sub Pop abbia voluto scommettere su di loro.
Ci fermiamo nella zona vicina a prendere qualcosa da mangiare e bere, e poi seguiamo King Tuff: ok, lo ammetto, proprio niente male. Bel sound, bella voce, e in qualche modo, ecco, anche meglio di Wavves. Raccomandato. Nel mentre al vicino Clive Bar si esibisce Andrew WK, ma mi perdo Party Hard, e tutto il resto, come diceva il grande Califfo che non c’è più, è noia.
Torniamo al Bar 96 dove la folla è terminata, e guarda caso, ci sono proprio i Wavves a suonare. Entriamo, compriamo da bere, sigaretta, e parte la musica, e partono i crowdsurfing più selvaggi mai visti dai tempi dei Kaiser Chiefs. La band è tanto migliorata, si trova alla perfezione sul palco, si diverte, e sebbene il bassista dia sempre l’impressione di essere la versione bionda e tossica di Jack Black è ottimo. Lo spettacolo è divertente, intrigante, ma guardo l’orologio ed è l’ora.
Questo nome fino a poche settimane prima lo ignoravo totalmente, ma mi sono documentato, visto i video live ed ufficiali, ed eccomi in attesa spasmodica per il live di Macklemore & Ryan Lewis (nella foto).
C’è la folla delle grandi occasioni, la polizia e la sicurezza: la band che arriva sul suv con i vetri scuri. È già una star. E poi sale sul palco. Una miscela di Hip-Hop e sonorità europee e africane. Violini che si intrecciano a ritmi tribali, e poi lui, Macklemore, che domina la scena. Sound e personaggio che si fondono ottimamente, sonorità che per gli americani sono nuove, ma non per noi europei che non possiamo che apprezzare. Macklemore & Ryan Lewis la nuova frontiera dell’hip-hop? Beh, come se Mumford & Sons si fossero messi a fare hip-hop, e il risultato è decisamente emozionate e affascinante. Mi spiace Mowgli’s, ma Macklemore & Ryan Lewis vincono la giornata e anche un posticino nel mio cuore.
E detto questo, un po’ tristi, torniamo a prendere la macchina nell’East Side. Un po’ pensierosi perchè domani è l’ultimo giorno.
autore: Michele Bonelli di Salci