Mi chiedo spesso che valore abbia – in tempi liquidi come i nostri, dove tutto ha una data di scadenza drammaticamente breve – il concetto di sorpresa.
In musica poi, con i migliaia di feedback a cui possiamo accedere e dai cui siamo bombardati, abbiamo ancora quella fortuna di “cadere dal pero” e di provare quello stupore quasi atavico e malinconico, come solo una vita analogica poteva regalarci?
La sorpresa, o meglio, le sorprese di cui voglio scrivere sono quelle che nascono in una serata quasi primaverile di fine febbraio (questa è la prima), davanti ad un palco di un piccolo club bolognese – che come mi fa notare il mio amico Gabriele, ricorda molto da vicino alcuni club underground berlinesi – dove una piccola e deliziosa bambola di porcellana di nome Annie Clark ha insinuato in me, ma credo nella maggior parte dei presenti, un amletico dubbio: può una figura tanto eterea e celestiale dar vita ad un suono,ma più in generale ad una dimensione, tanto corrosiva e “disturbata”, quanto totalizzante e raffinata.
Ebbene sì, al di fuori di ogni ragionevole dubbio, St Vincent, accompagnata dai suoi fedeli servitori (batteria, synth e moog) è la sintesi ideale tra la Bjork degli inizi e gli incubi più reconditi e bui di Trent Reznor, una commistione perfetta ed esplosiva tra la purezza fiabesca e sintetica della prima e le derive “industriali” e oniriche del secondo.
Dopo un’attesa infinita, l’inizio del set, con la tripletta “Surgeon”, “Cheerlaeder” e “Chloe in the Afternoon”, è un impatto devastante, frutto di generi e soluzioni che si rincorrono a perdifiato, beat e pattern da rave berlinese che si innestano su schitarrate, ora ruvide come catrame, ora addirittura funky, mentre la voce Annie, che sembra provenire da un eden incontaminato ricama melodie rassicuranti che sanno di miele, così ché il piccolo palco del Lokomotiv, d’improvviso, sembra trasformarsi nella scena di un meraviglioso musical dissonante.
E’ questo il mondo di St. Vincent, un delirio operistico che sembra diretto da un Walt Disney strafatto di LSD, dove ogni soluzione musicale, ogni suono, che sia robotico e digitale o che provenga dalla sua chitarra, ci lascia stupefatti per quanto sia così teoricamente spiazzante, ma anche così concretamente efficace.
Il singolo “Cruel“, a metà concerto, permette a gran parte del pubblico di accennare anche un coretto durante il ritornello, umanizzando così la sua struttura elettronica di battiti e drum machine, mentre subito dopo “Chamapagne Year” ci riporta in una dimensione eterea ed estatica grazie alle sue atmosfere sospese, ma soprattutto alla purezza angelica della voce dell’artista americana.
Tutto il concerto è frutto di un copione perfetto e ampiamente collaudato, dove la schizofrenia più estrema sposa momenti di dolorosa poesia (Strange Mercy), dove riff – che serpeggiano tra tutti i tipi di rock, passando dal funky fino all’hard-rock – vivono in simbiosi con trucchi digitali e futuristici (Marrow), senza (ed è bene sottolinearlo) mai diventare un pastiche, ma regalandoci una sensazione straniante, come se tutto questo suono fosse generato da un vinile fatto girare in un lettore Blu-Ray.
La prima parte del concerto si chiude con l’elegiaca “Year of the tiger“, una sorta di ballad riveduta e corretta, infarcita di elementi sintetici, con un finale intenso in cui Annie Clark dà sfoggio di qualità vocali assolutamente all’altezza della sua musica e della sua ricerca.
Il ritorno per il consueto bis si apre con una “The Party” da brividi, che spogliata dalle orchestrazioni presenti su disco, rivela la sua anima quasi sacrale e ieratica, mentre la conclusiva “Your Lips Are Red” – unico episodio estrapolato dal primo album “Marry Me” – è quanto di più dionisiaco si possa sperare di vivere in un concerto, con St. Vincent che in versione “guitar hero” prima strapazza ogni singola corda del suo strumento con riff aspri e stacchi feroci, poi si catapulta tra tutti noi, in una specie di stage-diving controllato, mentre posseduta dalla sua stessa musica, si lascia strattonare, abbracciare, sorreggere e infine ammirare in tutta la sua folle bellezza.
Le ultime parole che udiamo sono di una dolcezza disarmante, un “thanks to all” che sa di benedizione, mentre le luci che si riaccendono lasciano intravedere negli occhi di tutti uno stupore che viene da lontano, una sorpresa (l’ultima), che solo una serata allucinante e maestosa come questa può regalare.
Autore: Alfonso Posillipo
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