Questo sabato sera è diverso, si intuisce che lo sarà già dal fatto che ci approcciamo ad una serata dal sapore retrò, un figlio adottivo di Napoli torna in città e, solo con chitarra acustica, si denuda di ogni orpello cucito da trame post-rock e kraut e canta in maniera visceralmente trasparente.
Si torna al Cellar Theory. Il club è fresco di trasloco, ora si trova in Via Acitillo, sempre al Vomero, e si prepara ad offrirci un’altra bella sorpresa.
I dischi degli Ulan Bator vicino al botteghino all’ingresso già fanno intuire qualcosa. La conferma mi arriva quando mi ritrovo di fronte la fotocopia francese di Nick Cave. (Potete distinguerli anche dal fatto che il nostro australiano non suonerebbe mai una chitarra con gli strass!). Eh già, avete capito anche voi. Stasera Amaury Cambuzat suona gli Ulan Bator in versione acustica.
La platea è eterogenea, da addetti ai lavori a semplici appassionati. Si riconoscono diversi esponenti della scena indie napoletana e tanti ragazzi molto incuriositi.
Al Cellar va una menzione particolare perché è tra i pochissimi locali nel napoletano in grado di dare calore, qualità acustica e, soprattutto, la dignità che meritano concerti del genere. Il salto di qualità dallo scantinato underground al locale per concerti d’autore è molto apprezzabile.
L’atmosfera è quella che si crea nei piccoli e fumosi club dove domina solo la voce dell’artista. Roca, graffiante. Inizia solo chitarra e (l’immancabile) loop station. Al ritmo ci pensa il suo piede sinistro e un pad simulatore di grancassa.
Se nei primi pezzi il pubblico rimane un po’ scettico (qualcuno si fa notare per non essere molto preparato sul genere!), già al terzo brano, Terrorisme Erotique mai tanto attuale, come sottolineato dall’introduzione del nostro, quanto all’indomani della strage di Parigi, l’ambiente si scalda e l’interesse cresce.
Il genere in sé non è dei più digeribili ma la bravura ed il talento di Amaury sono oggettivamente innegabili. Si districa con maestria tra alcuni brani inediti e i maggiori successi del suo gruppo come Pensées Massacre o Echo (suonata come ultimo pezzo, supportato anche dal basso e batteria degli Epo).
Amaury parla spesso, in italiano, ringrazia l’audience, pronuncia parole affettuose verso Napoli ed omaggia, seppur ermeticamente Pino Daniele. Non è molto loquace, preferisce far parlare la sua chitarra. E i suoi brani, schitarrata su schitarrata. Il suo non è semplicemente post-rock. Per lui il post-rock è tutto quello che è venuto dopo Elvis e alla sua musica preferisce dare l’etichetta Ulan Bator e basta. Del post-rock permangono alcuni tratti come la predominanza della capacità espressiva del suono sulla melodia pura e semplice (non sognatevi di andare ad un loro concerto a cantare dei ritornelli!).
La dimensione acustica di Amaury, sebbene priva di basso, quindi svuotata dell’essenza stessa e caratteristica peculiare degli Ulan, ci porta in un mondo fatto di attriti, contrasti difficilmente sanabili ma da interiorizzare e provare a risolvere con il fondamentale supporto onirico fornito dalle sue trame sonore ripetute all’infinito.
Da buon figlio del krautrock europeo, la setlist risulta secca e minimalista: giusto una quindicina di canzoni raccolte in un’ora abbondante di concerto e niente fronzoli se non una pausa sigaretta prima degli ultimi due brani.
Gli integralisti del genere avranno certamente storto un po’ il naso a questo tipo di riproposizioni. Forse il genere trova la sua dimensione solo in chiave elettrica. La sensazione, comunque, è di aver partecipato a qualcosa di diverso rispetto alla normale offerta della città e di essere un po’ più fortunati di quando si era usciti di casa.
A conquistare il mondo, ci penseremo sabato prossimo.
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autore: Luigi Oliviero
foto: Pietro Previti