Paolo Spaccamonti, Marco Milanesio, Federico Marchesano e Dario Bruna sono i musicisti che accompagnano Ginevra Fenoglio, in arte Ginny, in un progetto di 6 tracce che suona sorprendentemente celtico, artico, nord-europeo. La voce di Ginny, sorprendentemente matura nonostante la giovanissima età, è quella di un folk delle brughiere, sussurrata come quella di una fata o di un elfo di quelle zone. Eppure il disco è nato in Italia, distribuito da EeeE, ma è lontanissimo da quello che si ascolta, purtroppo, nelle radio di musica italiana. Anzitutto perché ci sono solo voce, chitarre acustiche arpeggiate, e archi. Già solo questo lo rende prezioso, affascinante, profondo, e lontanissimo dalla tradizione nostrana.
Il quadro rappresentato, poi, è quanto di più distante da quello a cui i giornali e le cronache ci abituano quando ci parlando di adolescenti: Ginny accompagnata dai suoi musicisti, di comprovata esperienza, appartiene alla stessa generazione, quello di una generazione alla quale pandemia e lockdown hanno portato via speranze, spazi, tempi, socialità, allontanandole dal loro presente. Ma Ginny ci riflette sopra, non allontana il buio, decide al contrario di farne un disco, in cui difende i rapporti, d’amicizia o sentimentali, (5 more minutes), le conversazioni per quanto fatte davanti a uno schermo
(Till you said you liked my voice), il liceo che finisce e un’università che comincia senza dare speranze.
Rimangono frammenti di frasi dette, parole attese, (Back Pocket) prove tecniche di richieste di perdono (Apology Cards) tra messaggi scritti e poi cancellati.
Platform 8 è la canzone che introduce il disco, e forse è la sua più bella, senz’altro il suo manifesto artistico. Melodia, malinconia, una voce sussurrata e profonda, chitarre e archi. Niente di più, e niente che serva di più di questo. Una canzone che ha dell’epico, che ha del mitico e senza tempo, essenziale e completa, incredibile a pensarsi composta da persone che non hanno quei suoni, quella cultura, quelle langhe e brughiere nel sangue. Ma Ginny a quanto pare per qualche strano sortilegio le ha.
If I’m Not Loving You, la title track, è altro manifesto, anche se l’arpeggio si fa più veloce e la voce di Ginny più dinamica, grintosa anche se sempre sussurrata. Solo in Apology Cards si rinuncia agli arpeggi di chitarra per lasciare più spazio a organi e tastiere. Ma è solo un breve spazio di tempo perché archi e tastiere ritornano in 5 more Minutes, nella loro forma più classica, così come in Back Pocket, e qui disegnano una storia triste e malinconica in forma di melodia folk. In Till You Said you Liked my Voice la chitarra torna a un allegretto, per congedare con un motivetto più sereno e gioioso, vagamente autoironico, l’ascoltatore, che non può fare a meno di rimanere abbagliato da queste sei composizioni senza spazio e senza tempo.
Un disco stupendo, il cui unico difetto è terminare troppo presto, una raccolta di bozzetti piuttosto che canzoni, ma che avvicina Ginny immediatamente ai grandi esponenti del post-folk contemporaneo, non solo italiani (vengono in mente subito i Comaneci di Francesca Amati) ma anche internazionale (Alessi’s ark, One Sixth of Tommy).
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