Gli applausi stavolta ve li meritate voi se dimostrate di conoscere Antony e i (suoi) Johnsons da prima di questa ristampa. Nonostante l’estrema singolarità – che andremo a descrivere – della figura, diciamo che avreste dovuto avere confidenza con le uscite della Durtro, micro-etichetta di David Tibet dei Current 93 (tutt’altro genere, non confondetevi le idee), che stampò questo debut album omonimo nel 2000. Impegnativo, vero?
Adesso è la Secretly Canadian a fare questo favore a tutti, e, credetemi, si tratta di un grosso favore. Nel frattempo però di questo quasi-sosia di zio Fester (quello degli Addams – ma si scrive così?) si era accorto Lou Reed in persona, abboccato all’amo della semplice copertina. E l’ascolto gli riservò uno stupore ancor maggiore, oltre a confermargli quella che sembrava una buona intuizione. Da lì è nato il contatto personale con Antony perché questi seguisse Lou e la sua band nel world tour 2003 e prestasse la sua voce nel recente “The Raven”. E anche Steve Buscemi (superbo attore, concordate?) ne ha fatto oggetto di devozione, chiamandolo, per un film da lui diretto (mmh… e da quando in qua Steve è al di qua della camera?), a cantare a una stanza piena di galeotti la sua ‘Rapture’, che troviamo in questo disco. E sempre nel frattempo, in quella che di qui a poco può diventare una Antony-mania, sta per uscire il nuovo album vero e proprio, “I Am a Bird Now”, in cui Lou Reed – cui, in veste di partecipanti alle sessions, si sono aggiunti Rufus Wainwright, Devendra Banhart e Boy George – salda il proprio debito con l’istrionico vocalist.
Già, tante parole ma ancora nulla di preciso su di lui. Punto primo: immagine. Antony riesce, nel suo modo di presentarsi, a condensare androginia, innocenza, perversione, e tanti altri elementi antinomici che lo rendono controverso, forse provocatorio, mai però veramente trasgressivo. Le manifestazioni espressive di Antony, benchè calate – sul piano sia estetico che musicale – da un contesto da cabaret melodrammatico e operettistico (altri elementi che Antony riesce, con fare più o meno volutamente kitsch, a rendere simbiotici), sembrano comunque indicare una sincerità di fondo, tale per cui è forte il sospetto che anche nella vita di tutti i giorni Antony porti molto con sé, almeno “dentro”, questi costumi di scena.
Punto secondo: la musica. Con un’orchestra (11 elementi – neanche piccola…) alle spalle a predisporgli una “rampa di lancio” melodica, in bilico tra morbido romanticismo e intensa drammaticità, Antony fa decollare, col suo timbro pomposo e forbito, la voce delle sue pene, dei suoi tormenti, dei suoi struggimenti, di cui quell’aspetto, come descritto, fa da proiezione visiva più che attendibile. Nessuna delle 9 canzoni – sì, se non le si chiama adesso col loro nome… – prende il sopravvento sulle altre, frutto di uno standard ispirativo altissimo, che lascia passare inosservata anche la distanza trascorsa cronologicamente dall’epoca di loro composizione (tra il 1997 e l’anno successivo).
In 35 intensissimi minuti Antony gioca a fare l’incompreso, il disilluso, il deluso, senza però chiudersi in sé, come odierno costume musicale, ma lanciando prometeicamente al mondo intero la sfida di una vita diversa, destinata magari a perdere, ma con lo stile “di un tempo”: unico, grandioso, sublime. Antony vs the world, in un certo senso, e la partita è ancora tutta aperta…
Autore: Bob Villani