Verso le 20 di un’afosa serata capitolina eccomi arrivare al Parco Rosati, luogo dove solitamente si tiene Fiesta, una rassegna di musica latino americana. In apparenza un’ambientazione che nulla c’entra con Mark Lanegan ed i suoi lugubri tormenti. Fortunatamente nulla lascia intendere quanto avvenga di solito, anzi il posto è dotato di una specie di anfiteatro con sedie immerso nel verde che ben si presterà all’esibizione del nostro.
Dopo pochi minuti che sono lì insieme ancora a poche persone, sale sul palco Lyenn (uno dei membri della band di Lanegan), il quale propone un discreto set di stampo cantautorale.
Successivamente è la volta di Duke Garwood (altro polistrumentista in seno al gruppo del buon Mark, artefice di vari dischi da solista, oltre che di Black Pudding, pregevole album del 2013, realizzato insieme allo stesso Lanegan).
L’artista londinese, accompagnato da un batterista, si prodiga nello scaldare l’animo dei presenti, grazie, in particolare, ad un’ottimatecnica chitarristica piena di pathos e di venature blues tutt’altro che scolastiche, ricevendo un grande apprezzamento da parte pubblico.
A qualche minuto dalle 22 e la location finalmente gremita, tocca al protagonista della serata fare il suo ingresso on stage.
Il songwriter di Ellensburg prende posto dietro l’asta del microfono (quasi una coperta di Linus per lui), di nero vestito e con un inedito paio d’occhiali a far capolino sul suo volto.
L’espressione ed il portamento sono imperturbabili come al solito e l’interazione con gli astanti non andrà oltre a qualche “thank you” d’ordinanza. Ma la gente accorsa sembra preparata a tutto ciò e non reclama ciò che non potrà avere. In fondo è la musica e le emozioni da essa procurate a essere importanti e va bene così.
Di conseguenza non si vedono stuoli di smartphone all’orizzonte, segno che è ancora possibile fruire di un concerto senza frapposizioni spesso irritanti.
Venendo ai contenuti c’è da dire che il live di stasera ha privilegiato il repertorio più recente (suppergiù dagli anni 2000 in poi, sino al recente album Gargoyle) di Lanegan, quello che via via si è parzialmente commistionato con l’elettronica (tra le sue influenze dichiarate, si va dai Kraftwerk sino al nostrano Donato Dozzy), vedi le esecuzioni di Ode To Sad Disco o Torn Red Heart. Non che le chitarre siano state lasciate da parte (in alcuni momenti erano in tre sul palco ad armeggiare sulle sei corde), però, il corso attuale propende meno verso il rock tout-court.
Belle botte di adrenalina, comunque, ci sono state (Harvest Home, The Gravedigger’s Song, Beehive, Hit the City, Methamphetamine Blues) e la voce del cantante statunitense ha retto da par suo. Fosse stato un frontman “alla Mick Jagger”, probabilmente, in quei momenti il pubblico avrebbe lasciato volentieri le sedie e si sarebbe scatenato. Dalle mie parti, però, si dice che chi nasce tondo non muore quadrato, quindi tutto non si può avere…
A far risplendere le doti canore dell’ex vocalist degli Screaming Trees (i cui brani, stavolta, non sono comparsi in scaletta) ci hanno pensato specie le ballate, tipo la nuova Goodbye To Beauty ed, in particolare, Deepest Shade (cover dei Twilight Singers dell’amico Greg Dulli), a mio avviso, vero apice della serata, complice una esecuzione da brividi.
Sempre a proposito di riletture, a chiudere il cerchio fra la new wave e Lanegan, nonché ultimo pezzo dello show, è stata scelta Love Will Tear Us Apart dei Joy Division, in una versione tanto fedele all’originale quanto sentita.
Avendolo visto dal vivo in varie occasioni, mi è sempre capitato di trovare input diversi rispetto alla prova precedente (compresa quest’ultima) nella proposta musicale di Lanegan. Inoltre la sua voce regge ancora bene. Certo dopo oltre trent’anni di carriera, un poco di magia si è persa in favore di un leggero tocco di mestiere, almeno in studio di registrazione. Quisquiglie che nulla levano alla bontà di quanto ancora è in grado di regalare il cinquantaduenne Mark Lanegan a coloro che hanno voglia di immergersi nell’immaginario a tinte fosche del nostro.
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Autore: LucaMauro Assante