Mancava da queste parti, dal lontano 2007. L’hanno riportato qui Riot Studio, che mette a disposizione l’affascinante location di via San Biagio dei Librai, e wakeupandreams in una serata che pure aveva molta concorrenza tra Napoli e provincia (Raiz, Dimartino, ecc.).
“A casa”, questo è il nome della rassegna, è come ci si sente su quel terrazzo. In una casa dove si può avere l’onore di ascoltare uno dei folk-singer più apprezzati ed eccentrici della scena alternativa contemporanea. A casa di Micah P. Hinson fa caldo, sì, ma si ascolterà ottima musica.
Il palco è un grande tappeto e dei tavolini bassi sono il supporto a due casse. Rapido check personale al palco: c’è la pedaliera, l’asta col microfono, l’immancabile bottiglia di succo di frutta all’arancia, c’è la chitarra acustica, la storica “Seagull” e, indizio fondamentale, non c’è traccia di amplificatore a indicare la sicura assenza della chitarra elettrica, protagonista assoluta del violent folk andato in scena poche settimane prima a Roma (qui il report). La setlist sarà la stessa?
No! Archiviate momentaneamente le date celebrative per il decennale del suo debut album “Micah P Hinson and the Gospel of Progress”, il giovane cantautore propone una scaletta fatta di contributi provenienti da tutti i suoi album (sei finora, più un altro di sole cover) e ricca di omaggi alla migliore tradizione folk (e non solo!) d’oltreoceano.
Si comincia, dopo qualche secondo utile a ritrovare il plettro smarrito, con due pezzi contenuti nel suo album “Micah P. Hinson And The Pioneer Saboteurs” del 2010, “Seven Horses Seen” e “2’s and 3’s”, poi approfitta del rumoroso passaggio di un aereo sopra le nostre teste per raccontare un po’ della sua storia, quindi delle sue origini (nato nel Tennesse), l’adolescenza (cresciuto in Texas, a suo dire “a terrible place to live”) e, appunto, il rapporto con gli aerei. Capiremo più avanti nel corso della serata che questi excursus rappresenteranno una sorta di evento parallelo fatto di storie e aneddoti, raccontati con la caratteristica, apparente svogliatezza con cui canta. Il tutto ad assommare quasi tre ore di spettacolo.
“Beneath the rose” è, oltre che meravigliosamente toccante, il primo pezzo in scaletta estratto dal citato debut album. “At last”, “Our promises” e una bellissima “A dream of her” che sarebbe capitata a pennello in quella serie se… non avesse dimenticato gli accordi per la strada! Ma poco importa, avanti con un altro brano che… “Oh fuck! I already played this!”. Micah P. Hinson piace anche per questo: l’essere distratto al punto da dare fastidio e non fare nemmeno una piega!
Riesce incredibilmente a distorcere con violenza anche la chitarra acustica su “Yourself asleep again” che anticipa gli ultimi brani in scaletta: profondi ed emozionanti, arrivano due estratti da “Micah P. Hinson and the Nothing”, del 2014, “A million light years” e “God is good” (introdotta come “not a song about religion, it’s a song about spirituality”), seguiti , in chiusura, da “This old guitar” di John Denver, dedicata proprio alla sua inseparabile “Seagull”.
A casa di Micah P. Hinson non c’è lo spazio per scendere dal palco, andare nel backstage e tornare sul palco richiamato dai “bis!” del pubblico. Semplicemente si fa un passo indietro e, dopo qualche secondo, uno avanti , si imbraccia la chitarra e via. A partire non è un accordo, ma un discorso piuttosto lungo e articolato sulla giornata che gli Stati Uniti celebrano con più orgoglio e che cade proprio nella sera del concerto, il 4 luglio (in sintesi, è orgoglioso di essere americano ma ne riconosce i tanti difetti che contraddistinguono il paese, dal 1776 a oggi).
Quelle che seguono, però, rappresentano l’essenza dell’America che ci piace di più, quella fatta di canzoni passate alla storia. Micah e la sua Seagull interpretano in successione “Can’t Help Falling in Love”, intramontabile perla resa famosa da Elvis Presley, “Suzanne”, magnifico e memorabile brano di un’altra leggenda come Leonard Cohen e “Something in the way” dei Nirvana. Anche qui, però, Micah inciampa dopo i primi tre accordi e dimentica i successivi, lasciandoci tanto amaro in bocca. Con la sua consueta nonchalance, si scusa e attacca subito con un altro classico, altrettanto toccante, “NYC” degli Interpol.
Il live si è poi definitivamente concluso con “I Keep Having These Dreams”, da “Micah P. Hinson And The Red Empire Orchestra”, del 2008, meravigliosamente arpeggiata e cantata con altrettanta intensità. La stessa che, al netto delle distrazioni, ha mantenuto per tutta la setlist, ancora una volta orfana della richiestissima “Patience” (“I’m not a f**king monkey, i’m not gonna play that song” ha risposto al pubblico).
In un afosissimo 4 luglio 2015, a trasportarci in una dimensione malinconica e struggente non è solo la suggestiva e rilassata location, non la torrida aria estiva e nemmeno le birre sorseggiate in amicizia, ma è lui. Micah. Paul. Hinson. Anche senza tenuta da metalmeccanico/super Mario, la sua impronta graffiante e struggente ci ha emozionato, ci ha fatto commuovere e ci ha fatto guardare il cielo che, pure se terso e appannato, ci ha saputo regalare anche una stella cadente.
Ma il desiderio, per noi appassionati di buona musica, si è già avverato.
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autore: Luigi Oliviero