Avevano annunciato in grande stile una musica “come non l’avete mai sentita”: e invece A Moon Shaped Pool, ultimo album dei Radiohead per la XL Recordings, ampiamente pubblicizzato e annunciato con grande clamore su tutti i social (contrariamente alla linea “moderata” da sempre adottata dai Radiohead), è molto simile ad alcuni suoi precedenti, forse anche troppo, anche perché alcuni brani sono nati in quei tempi lì.
Una vera novità è certamente il primo singolo, Burn the Witch, giocato tutto sui violini, strumento praticamente mai usato dalla band, e con un approccio arioso e solare, contrariamente ai toni cupi e paranoici soliti del gruppo. Ma 3,40 minuti di novità sono un po’ pochini. E infatti già il secondo singolo (il lancio è stato quasi contemporaneo), Daydreaming, riporta gli ascoltatori a toni e modi ben vecchi, stile Pyramid Song, per capirci, sia per modulazione della voce che per andamento lento di piano ed effetti.
La cosa meno nuova di tutte, e non è una buona notizia, è lo stare ancora una volta quasi alla finestra delle chitarre di Johnny Greenwood ed Ed O’ Brien, (salvo un suadente riff acustico in Desert Island Disk e in Present Tense), e i toni vocali di Tom Yorke, che per l’ennesima volta rinuncia alla sua splendida voce, (che i fans hanno imparato a conoscere nei primi tre album, da Stop Whispering fino a Let Down, e poi quasi più nulla) per tuffarsi in nenie sussurrate più che cantate, i cui esempi si trovano praticamente in tutti gli altri pezzi dell’album che non siano Burn the Witch.
Assente all’appello anche Philip Selway alla batteria: è quasi imbarazzante a questo punto che sia citato ancora come membro del gruppo, visto che già dal precedente (e deludente) King of Limbs i Radiohead si erano tuffati o su loop elettronici (e qui c’è Ful Stop, Identikit e Decks Dark, a testimoniarlo) o in canzoni completamente senza sessione ritmica (e qui troviamo Daydreaming, e la lentissima e quasi insopportabile Glass Eyes).
Verrebbe da dire che sono sempre i soliti Radiohead: Ful Stop vuol essere la nuova There There, e Identikit forse la nuova Idioteque: in entrambi i casi, siamo lontanissimi dalla fulgida bellezza di quei due capolavori di un passato musicale che a quanto pare non è più in grado di tornare.
Sono dunque i soliti Radiohead, ma quelli di Amnesiac e King of Limbs: tanto che a questo punto lo splendido In Rainbows va considerato una parentesi in quell’evoluzione del gruppo che per la verità sembra più una involuzione verso una psichedelia autoreferenziale, lontana anni luce da ogni melodia, e piena zeppa di effetti cerebrali.
La lentezza, comunque, è ciò che caratterizza più di tutto questo nuovo lavoro: i Radiohead sono sempre i Radiohead, quindi maestri di atmosfere, di effetti, di psichedelia spinta, di elettro-jazz, e anche qui troveremo dei capolavori del genere. Ma ascoltate The Numbers, o True Love Waits, o in fondo qualsiasi canzone dell’album, e non troverete ritmo, non troverete chitarre elettriche, o meglio non troverete strumenti, a parte il pianoforte. Tutto il resto è elettronica, e Tom Yorke che ci canta sopra in quell’ormai irritante falsetto che ha ucciso tempo fa la sua bellissima voce.
Questa scelta negli anni ha pagato: milioni di fan hanno da sempre gridato il successo del gruppo di Oxford nel fare questa svolta anti-commerciale, molto psichedelico-paranoica, però stavolta anche il fan più accanito della svolta elettro-jazz della band inglese non può fare a meno di notare che le canzoni si assomigliano tutte fra loro, e assomigliano troppo a certi pezzi storici, specialmente di Amnesiac.
Si riesce a trovare qualche emozione vibrante, in True Love Waits, o nei due singoli, o in Present Tense, o Ful Stop, ma tutto il resto è noia o poco altro. Tom sussurra, e rinuncia a emozionare, e la sessione ritmica è scomparsa. L’equilibrio trovato a suo tempo tra la psichedelia cerebrale e il mantenimento del pezzo canzone, come in There There o in Jigsaw Falling into Place è inesistente qui, e lo è già dal disco precedente. E’ forse il caso di accettare che anche per i prossimi anni i Radiohead possano essere solo questo e nient’altro, però sarà difficile non ricordarli come i creatori di capolavori assoluti, ingegnosi e demolitori dello schema canzone (Everything in its Right Place, In Limbo, National Anthem, Paranoid Android, Where I End and You Begin, tanto per fare esempi celebri) ma pur sempre canzoni, e pur sempre piene di intensità. Intensità che qui è la grande assente. E c’è troppa ripetizione di schemi già usati. Angoscia e preoccupa infatti che Burn the Witch sia un pezzo dei tempi di Kid A, che True Love Waits sia addirittura del 1995 e Identikit e Ful Stop siano comparse durante il tour del 2012. E’ finito l’idillio creativo? Non si sa. Fatto sta che la piscina a forma di luna è vuota, vuota di idee e di emozioni. Purtroppo.
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autore: Francesco Postiglione