Kim Gordon è stata, è, e sempre resterà un’icona della musica alternativa, per quanto realizzato con i Sonic Youth ed i tanti progetti paralleli, musicali e non, che hanno arricchito i suoi settant’anni di vita vissuta intensamente.
Per quanto possa sembrare strano, “The Collective” (Matador Records) è solo il suo secondo album da solista e segue di cinque anni il precedente “No Home Record”, che aveva avuto il merito di mostrare un’artista viva e curiosa di sperimentare qualcosa di diverso rispetto al suo glorioso passato.
Oggi come allora si è affidata alla proficua collaborazione con il produttore Justin Raisen per mettere a punto un disco ancor più spostato in avanti dove si mescola un po’ di tutto, utilizzando la ricerca di un linguaggio “pop” attraverso la moderna via del linguaggio della trap americana, sul quale far confluire un po’ di tutto: dall’hip-hop old school, al noise, dai rumorismi dell’industrial ai suoni d’avanguardia, tutti innestati su basi ritmiche di matrice elettronica. Il risultato è una sorta di rap d’avanguardia ammantato di rumore, con liriche spesso astratte che a tratti sono soffocate dalla musica, tanto da sembrare di essere alla ricerca di un limite nel caos creato.
Il brano d’apertura “Bye Bye” gioca su di un testo che mette in fila una lunga lista di oggetti da mettere in valigia prima di un viaggio, mentre in “I’m a Man” che la Gordon recita come un mantra, si parla della tossicità della mascolinità. “Shelf Warmer“, una canzone ticchettante sulle chincaglierie dei negozi di souvenir, sembra parlare di sesso, mentre un’altra canzone, “Psychedelic Orgasm“, non lo fa. Su questi contrasti la Gordon fonda il suo modo di “fare rap” che poi rap non lo è quasi mai
I suoni diventano man mano sempre più claustrofobici quasi che la Gordon e Raisen vogliano creare una sorta d’hip-hop d’avanguardia e sperimentale, in linea con il vissuto storico dell’ex bassista dei Sonic Youth. Mentre i testi tendono ad essere trasformati in suoni per arricchire i beats che stanno alla base del disco.
Il tutto ha un aspetto abbastanza straniante e non certo di facile presa, perché in tutto questo groviglio di riferimenti e mescolanze si rischia di rimanere affascinati e annoiati allo stesso tempo. Occorre avere una decisa apertura mentale per apprezzare sino in fondo un disco come questo che è spinto al limite tanto da apparire allo stesso tempo come un capolavoro oppure un grande boh? Tutto dipende dall’ottica con cui lo si guarda.
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