di Darren Aronofsky, con Mickey Rourke, Marisa Tomei
Il cadavere del vecchio wrestler viene trascinato come un Ettore-Platinette tre volte intorno al Totem degli anni che passano. A sospingerlo nella polvere è un Achille maligno, che ha le pupille azzurrine del rimpianto e la faccia ingiallita della dignità smarrita. “The wrestler” può essere considerato un film di genere: il lottatore, il ring, la spossatezza esistenziale, il tempo scaduto. Ma al di là del voto che gli si può affibbiare (per il sottoscritto comunque buono), rappresenta la prova maestra, titanica, di Mickey Rourke, che torna bene o male alla vita, e non solo sul set.
Difficile vederlo ora vestire altri ruoli. Ve lo ricordate in “Johnny il Bello” e “Rusty il selvaggio”? Tifavate per lui quando bendava Kim Basinger in sottoveste per farla signora e puttana? Quel faccino da poster è scomparso. Sopra il sorriso alla crema si sono addizionate catastrofi emotive e, per il film, masse di muscoli tosti come sughero. Raggrinzito da far spavento, il wrestler sembra il giovane Rourke truccato da La cosa, il personaggio di pietra dei Fantastici Quattro. E se volete un parallelo umano, servìti: assomiglia sfacciatamente al mitico Lionel Stander.
Nel film interpreta il combattente che non può più lottare, pena la vita, ossia la metafora per eccellenza (ab)usata dal cinema per descrivere la morte e l’abbandono. Infatti – il copione è prevedibile – anche lui, Randy the Ram, dopo scorpacciate di trionfi è sulla via del declino. Sunset boulevard che non ha neanche l’orizzonte di una famiglia tribolata (“Rocky”) o di una rendita da spendere (“Toro scatenato”). Bello anche lo spaccato sul wrestling di serie B, che sopravvive nelle palestre lercie del New Jersey. Qualcuno (il New York Times) ha scorto nella finzione della lotta – esce sangue ma sostanzialmente sono gladiatori a salve – uno specchio della finzione e dell’artificio del cinema. Mi pare esagerato, però suggestivo.
Il regista Aronofsky, allucinatissimo autore di “Pigreco”, sceglie per inseguire il protagonista una perigliosa macchina a spalla e, sorprendendo un po’, un taglio di inquadrature iperclassico, che asseconda i soprassalti del tempo con una struggente fotografia “sgranata” e vintage.
Il film ha vinto il Leone d’oro a Venezia per la regia. La coppa Volpi, cioè il miglior attore, andò invece a Silvio Orlando per “Il papà di Giovanna” ma la critica straniera protestò: scelta imposta dal regolamento, meritava Rourke. In effetti.
Autore: Alessandro Chetta