Solo dando un’occhiata al loro banco del merchandising, in quel di napoli di supporto a El Guapo (dichiaratisi loro grandi fans) mi saltò in mente il loro promo. Che era lì al banco, così come tra quelli in (lunga) attesa di recensione. Ovviamente ascoltati dal vivo prima che su disco. Ciò che ha ulteriormente ritardato la review. L’attrazione era la band di Washington, difficile non essere impazienti e vivere con insofferenza le spigolose vergate no-wave/situazioniste dei tre romani (due lui e una lei che però escono per una minuscola label di S. Francisco, e che pure hanno fatto capolino, e non è poco, nella compila “Fields and Streams” – Kill Rock Stars, mica bruscolini).
A casa è diverso. Avere il potere tra le mani (possibilità incondizionata di cambiare traccia, volumi, quando non proprio disco e umore) consente una valutazione meno diretta ma più lucida. Scartata qualunque particolare perizia agli strumenti, la loro no-wave dispone comunque di concreti punti di contatto col rock strictu sensu (l’iniziale ‘Sichozell’ – l’intramontabile colla per attacchinaggio –, la successiva ‘Ru-dicolous’, in chiusura remixata da Økapi, sono ottimi sample di un sentire non lontano dall’ironia dance-punk) molto più che con massimalismi free o improv/jazz. Meno cazzoni dei concittadini Buzzer P – di cui sono amici –, parimenti privi di bluff intellettualoidi.
L’approccio dei Dada Swing è quello dello spiazzamento, dell’accostamento bizzarro, dell’inversione dell’usuale che ci coglie distratti, dell’approssimato consapevole, dello sfacciato pseudo. Penso alle cantilene vocali che fanno da preludio a rozzi segmenti di chitarra, penso alla finta marcia scozzese con sample di finte cornamuse di ‘Hand Your Claps’ (notata l’inversione?). Dimenticavo: gran faccia tosta, l’unico modo per fare ‘sta roba senza esser presi a bottigliate.
Autore: Roberto Villani