I Plaid non sono il solito duo elettronico da club radical chic, partiamo da questo presupposto. Nel 1993 Ed Handley e Andy Turner, all’epoca con Ken Downie, erano già a smanettare sintetizzatori e drum machine sotto il nome di Black Dog, un marchio che rappresenterà uno dei cavalli di battaglia della Warp al fianco di Aphex Twin e Autechre. Ma al trio è sempre piaciuto cambiare, dopotutto si sente nell’eterogeneità sonora tra un disco e l’altro. Dopo “Spanners”, altro caposaldo della “techno da poltrona”, Handley e Turner decidono di ripartire da un vecchio progetto cominciato qualche anno prima con il nome di Plaid, sotto il cui pseudonimo fu diffuso un Ep intitolato “Mbuki Mvuki”; il ri-nato duo si concentrò da quel momento su una IDM più ragionata, persino estremizzata in certi sperimentazioni.
Nel 2016, non stanchi di vent’anni di lavoro, i Plaid tornano con “The Digging Remedy“. Per Pithfork, questo disco prosegue quella che loro chiamano la quarta fase del sound dei Plaid cominciata nel 2014 con “Reachy Prints”, che avrebbe allontanato il duo dai suoni da library music della prima decade degli anni duemila. In realtà, con i Plaid non si può tanto parlare di fasi determinate, piuttosto di intenti artistici. Il disco si apre infatti con una minimale “Do Matter“, che a piccoli passi di percussione digitale avanza tra sbalzi di cutoff fino a comporre la porta d’ingresso alle sonorità dell’album. “Dilatone” parte incerta verso i toni più melodici che caratterizzano il cuore del disco, dalla brillante “Clock” prende il via una IDM molto dance, non eccessivamente intelligent, e con forti richiami a suoni più soft e morbidi, tanto che in certe sezioni ritmiche di “Bee” ci potresti sentire del trip hop. Da “Baby Step Giant Step” il duo inizia a spingersi verso suoni anche più complessi, tra “Lambswood” e “Held” si toccano le vette più sperimentali e paranoiche, con qualche traccia che non cattura l’ascolto più di tanto. Chiude una piacevole, quanto melodica, “Wen” che mette facilmente d’accordo un loop di chitarra acustica con dei synth lievi come piume, intonando una dolce ninnananna in crescendo dai toni vintage.
“The Digging Remedy”, utilizzando le parole del duo in un’intervista recente, è musica “per evadere in senso positivo“, non ha eccessive pretese avanguardiste, si tiene sul melodico pur non restando mai scontato. È un “warpismo” della nuova generazione in piena regola, ma conscio di un passato pieno di esperienza, che tuttavia pur restando piacevolissimo anche per chi fosse un neofita del genere, non rimane impresso nella mente come certe perle di qualche anno fa, perdendosi tra qualche suono già sentito e atmosfere fin troppo soft. Ma l’intento di produrre musica per scappare per un po’ da tutto e tutti c’è e funziona. D’altronde si sa, quando ci troviamo dinanzi a producer così eclettici e navigati, non è il pubblico ad essere committente dell’arte ma l’artista ad esserlo di se stesso.
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autore: Gabriele Senatore