Dopo Milano, si fermano anche a Roma i Boris per il tour celebrativo dell’album che ha portato loro il successo internazionale, Pink, uscito nel 2005.
Per chi non li conoscesse, sono un trio giapponese che dalla fine degli anni ’90 porta avanti un progetto musicale dalle mille sfaccettature, incorporando elementi stoner, doom, drone, psichedelia, ambient e persino risvolti maggiormente shoegaze/noise pop (in particolare nell’LP Attention Please del 2011). Recentemente hanno inoltre pubblicato Gensho, un doppio album in collaborazione con Merzbow il padrino, la bandiera, il vessillo del noise nipponico (detto talvolta anche japanoise).
Ad aprire le danze sono i Dryseas, quartetto stoner rock formatosi a Roma nel 2010 che, dopo la pubblicazione di un EP l’anno successivo, suona per promuovere l’ultimo lavoro Dryseafication, uscito a gennaio 2016. Sul palco: il chitarrista ritmico/cantante Carlo Venezia, Olsi Dani alla batteria, Marco dell’Uomo al basso e Marco Schietroma alla chitarra solista. Sarò sincero, all’inizio non ero molto fiducioso, l’ascolto del singolo Too Late (fresco fresco di nuovo videoclip) non mi aveva entusiasmato. Eppure dopo l’iniziale scetticismo ho dovuto ricredermi, i ragazzi sanno fare dell’ottimo stoner-rock assolutamente godibile. Sia chiaro, non inventano nulla, la formula è sempre quella (molto Queens of the Stone Age, qualcosina dei Kyuss, insomma tanto Josh Homme) però tutti i brani filano lisci e in un batter d’occhio suonano Dryseafication quasi nella sua interezza, con I Won’t Make It Out e Dryseafication come brani migliori. Anche Too Late si riscatta e in generale tutti i pezzi sono migliori dal vivo rispetto alla versione studio, rea di non cogliere appieno l’aggressività e la “sporcizia” dell’esibizione. Consigliati a tutti gli amanti dei QOTSA, soprattutto se si ha l’occasione di vederli live.
È però arrivato il momento di lasciare spazio ai Boris che dopo un brevissimo soundcheck salgono ordinatamente sul palco, sormontati da un discreto muro di amplificatori, rigorosamente Orange o al più Sunn O))). La prima a calcare la scena è l’incantevole ed elegante Wata che timidissima accenna un saluto (lascerà parlare poi la sua Gibson). Poi il frontman Takeshi Otani, il Nick Drake giapponese (chiaramente non mi riferisco allo stile ma piuttosto alle copertine di Akuma No Uta e Bryter Lyter), con l’immancabile strumento bifronte chitarra/basso. Infine sale il batterista nonché seconda voce, l’anima selvaggia del gruppo, Atsuo Mizuno. Tutti completamente vestiti di nero, così come i loro strumenti.
Il rumore bianco che li accompagna preannuncia il primo brano Blackout. E subito il muro sonoro investe il pubblico, con il basso assolutamente doom, potentissimo e viscerale di Takeshi che sfonda la cassa toracica e la chitarra di Wata che trapana le orecchie (io nel dubbio mi ero portato dei tappi, anche se alla fine non ce n’è stato bisogno). Dopo questo inizio “contemplativo” parte quel tritasassi che è Pink, primo brano dell’album omonimo. Ci si inizia a muovere ma, ahimè, i tentativi (anche del sottoscritto) di far pogare il pubblico risultano vani (per tutto il concerto gli spettatori, già non molto numerosi, sono rimasti abbastanza tiepidini). Seguono a ruota Woman On The Screen, decisamente stoner e Nothing Special, molto più noiseggiante. È il turno di Electric, uno dei riff più orecchiabili dell’album e quindi di Afterburner, vera summa di stoner doom in salsa wasabi.
Piccolissima pausa giusto per un sorso di birra e schizza quindi impazzita la chitarra di Wata che suona le prime note di Pseudo-Bread, con gli intrecci vocali dei due cantanti a fare da supporto. Rimangono solo altre due canzoni: My Machine, tra le più emozionanti e “intime” della serata, e Farewell, che dopo le prime dolci note di chitarra piene di riverbero, rovescia sul pubblico il wall of sound più imponente di tutti. Non resta altro da fare che lasciarsi cullare e godersi il momento.
Il trio avrebbe finito qua (e che finale), ma gli spettatori (sempre timidamente) non sono d’accordo, quindi i Boris risalgono sul palco, imbracciano nuovamente gli strumenti e suonano altri due brani (persi nella loro sconfinata discografia). Takeshi ringrazia, lancia il plettro al pubblico e si allontana, Wata saluta sobriamente con una mano, mentre Atsuo, il batterista, vuole tutta l’attenzione su di sé prima di lasciare il palco.
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autore: Davide di Gioia