Lo ammetto: sono un fan dei Blur! Da circa dieci anni. Sono una di quelle persone, e vi assicuro che non siamo in pochi, a cui album come “Modern Life Is Rubbish” e “Parklife” hanno aperto gli occhi e mostrato che al mondo non esistevano solo urla disperate, tempi in doppia cassa e chitarre sparate a velocità della luce. Finita l’adolescenza, Albarn e soci mi hanno preso allegramente per mano e portato in un universo in cui i numi avevano il nome di Kinks, Small Faces, Jam e Buzzcocks.
Ecco, per me i Blur sono stati questo. Ma non solo! Diversamente dai gruppi dell’effimero carrozzone Brit pop i Blur hanno sempre mostrato un’anima più profonda, che canzone dopo canzone li portava ad interrogarsi sulle proprie radici, riscoprendole diverse di volta in volta. Per questo ho salutato con piacere e ammirazione le evoluzioni che si sono succedute a partire dall’album omonimo.
Sono un fan, dicevo, ma la mia stima e ammirazione non è una delega data in bianco. E così ho seguito con apprensione le vicende legate alla dipartita di Coxon, il soggiorno in Marocco, la saga dei Gorillaz e le passioni africane di Albarn, temendo che i Blur usciti da questo periodo tumultuoso non avrebbero avuto più nulla a che vedere con la band che ho amato.
Poi fortunatamente è arrivato “Think Tank”!
Bello, notturno, romantico e compiuto come non lo era più stato nessun altro lavoro dai tempi di “Parklife”.
Insomma, il gruppo che questa sera si è presentato sul palco dell’Alcatraz è un gruppo maturo, non solo anagraficamente; ex bei visini del pop (Alex James si sta avvicinando pericolosamente alla stazza di Homer Simpson!) giunti ad un livello più alto di consapevolezza musicale. Una band, e soprattutto un frontman, che sa come alternare momenti riflessivi e romantici a sfuriate elettriche, tenendo sempre sulla corda un’audience fra cui si scorgono sempre meno adolescenti urlanti.
Purtroppo si tratta anche di una band che si trova in turnee da più di sei mesi e di tanto in tanto qualche segnale di stanchezza sembra affiorare, soprattutto se confrontiamo la prova di questa sera con quella vista sullo stesso palco agli inizi di maggio. Ma si tratta di piccole annotazioni di chi i Blur vorrebbe vederli sempre al meglio.
Ciò che colpisce di più del set di Damon e soci è la straordinaria omogeneità che viene data al loro repertorio. I successi del passato vengono rinvigoriti con robuste dosi di rumore che consente l’accostamento ai pezzi più aspri dell’ultima produzione. I brani di “Think Tank” fanno ovviamente la parte del leone. I nostri sembrano trovarsi perfettamente a loro agio sia con la psichedelica malinconica di “Ambulance” e “Battery In Your Leg” che con gli esotismi di “Gene By Gene”. Ma il pubblico dell’Alcatraz attende di poter saltare sul basso pulsante di “Girls And Boys”, di cantare all’unisono il gospel di “Tender” e di lasciarsi andare nella catarsi collettiva di “Song 2”.
E’ uno spettacolo che riserva diversi momenti memorabili, alcuni addirittura inattesi, come la scheggia impazzita in cui è stata trasformata “Trim Trabb”.
Vengono recuperati pezzi da ciascuno dei sette album finora pubblicati e quando, nei bis, il gruppo si abbandona alla trance psichedelica di “Sing” (tratta dal primo album “Leisure”) ci si accorge che in fondo i Blur non sono mai stati un “ordinario” gruppo pop.
Autore: Diego Ballani