Quasi in 120mila mossi dalla stessa cosa. Un anno fa, circa, ci siamo girati tutti a guardare dalla stessa parte, abbiamo messo tutti da parte qualcosa e abbiamo spostato lo sguardo verso quei ragazzi di Oxford, una volta gruppo di studentelli con la passione per la musica. Anni ed anni fa. Nel 2011 l’elevazione dell’essere umano e il passaggio all’essere quasi divino, qualcosa di ultraterreno, atteso come una manna dal cielo.
Un anno di attesa: i biglietti li avevo comprati a novembre, mi sembra. Il concerto di Firenze doveva essere il primo luglio, poi la disgrazia canadese, che ha coinvolto la band con la morte di un roadie causata dal crollo del tetto del palco, fa slittare tutte le date.
Se non fosse stato così probabilmente mi sarei licenziato per tornare a fare un qualsiasi lavoro che mi impiegasse tutta la giornata senza via di scampo, solo per essere lì a Firenze ed assumere la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta. Oltre all’attesa avremmo tutti condiviso anche il caldo asfissiante di quei giorni d’estate, un caldo pesante; non riesco a quantificare l’impegno in più che avrebbero dovuto metterci i soccorsi per evitare disagi.
Ho preso i biglietti per Firenze senza esitare e dal primo momento sono stato convinto di aver scelto la location più bella, più affascinante, più coinvolgente di quelle italiane. Sicuramente una delle più suggestive. Le Cascine non hanno deluso, un posto fantastico.
Alle 13 siamo già in molti ad attendere l’apertura dei cancelli. Siamo quelli che poi sarebbero riusciti ad entrare nel primo anello sotto al palco. I primi 3000 che hanno avuto diritto al bracciale. L’attesa si legge negli sguardi di tutti. È evidente la venerazione, come dicevo precedentemente.
Verso le 19 credo, non ne sono sicuro dato che ad un certo punto, in questi casi, si comincia a perdere totalmente la cognizione del tempo reale e si inizia a vivere solo i tempi del concerto, riusciamo ad entrare nell’area sottostante al palco. Vediamo gli ultimi preparativi. È tutto perfetto. Una sensazione di pace condivisa, posiamo i piedi nudi sull’erba circondati dagli alberi e ad un tratto si presenta la luna su di noi. Sembra di vivere una poesia lunga una notte intera.
Tutto d’un tratto spunta dal palco Caribou che ci saluta. Non tutti lo conoscono, però. Quando, poco più tardi, inizia il suo live (non mi sforzo ad inventare un fantomatico orario), molti lo osservano sbigottiti. Siamo in pochi a conoscere l’artista canadese. Il suo live è secco, preciso, diretto. Con buone probabilità sarà stato già ripetuto più e più volte in questi giorni post-Radiohead, ma “Sun” dal vivo è un vortice ipnotico dalla potenza immane. L’apertura di Caribou dura il tempo di 4 canzoni. Forse troppa bravura e poca intensità, ma forse Caribou ha bisogno del suo ambiente e di un suo concerto vero per essere apprezzato in pieno in sede live. Per il resto lo show è ineccepibile.
È il momento cruciale: Caribou e la sua band lasciano il palco ai Radiohead. Non mi sembra molto il tempo che separa i 2 set o è solo una mia illusione.
Un boato e i Radiohead sono sul palco. Imbracciano gli strumenti: lo spettacolo ha inizio. Partono con la sinuosa “Bloom”. È la prima volta che vivo un loro concerto. Riesco subito a realizzare la monumentalità di quello che sto per assistere, del vortice in cui verrò trasportato. Come entrare in un tunnel e, in fondo, non uscirne mai più totalmente.
Sul palco sono perfetti e ai 5 di Oxford si aggiunge Clive Deamer dei Portishead alla batteria a rafforzare una sezione ritmica articolatissima.
A “Bloom” segue la sublime “There There”, poi ci si comincia a muovere con le vibrazioni elettroniche e le chitarre di “15 Step”.
Dopo aver suonato “Kid A”, “Staircase”, “Weird Fishes/Arpeggi” e qualche altro brano Thom si siede al pianoforte.
È il momento di “You And Whose Army?” con gli schermi che inquadrano giusto in viso Thom Yorke che canta lasciandoci sorrisi eterni. Poi “Nude”. Uno dei momenti più forti di tutto il concerto. Le 2 ballate, quasi isolate da tutto il live, poste in mezzo, rappresentano uno dei momenti più toccanti del concerto fiorentino: la ‘meravigliosità’ della musica unita all’impatto visivo ricreato attraverso il posizionamento degli schermi si annida in ognuno di noi. È l’estasi e siamo liberi di riempirci. È un attimo umanamente importante o forse sono solo io che esagero.
Da qui in poi ogni limite è superato. Ogni collegamento col reale disattivato. Siamo nel vortice. Da qui in poi il concerto dei Radiohead diventa, per me, un’esperienza in bilico fra il presente e l’eterno.
“Identikit” e potrei mettere un punto. La “nuova” canzone dei Radiohead con quell’andatura trip-hop, quel cantato a più voci, quelle tastiere centrali mi lascia senza parole, ma con tante urla d’approvazione.
I Radiohead a questo punto continuano a sparare su di noi e vanno giù con “Lotus Flower”, già bellissima in studio, che qui assume una nuova aurea. La perfezione che raggiunge la riproposizione in sede live del primo singolo estratto da “King Of The Limbs” è una delle grandi sorprese del set.
La band è instancabile. Non c’è un momento sottotono. Tutti perfetti. Molti elogiano Greenwood come è giusto che sia, ma lì sul palco tutti danno il meglio e incanalano la loro forza tutta verso il live: sono i Radiohead, una sola grande esperienza. Il concerto è la migliore espressione del gruppo inglese, la massima rappresentazione della loro grandezza. E ci si rende conto della cura di ogni particolare: dall’apparato scenico e visivo alla scelta della scaletta, dalla posizione della band sul palco alla tecnica esecutiva.
Ci si rende conto che i Radiohead sono vicini e forse toccano in pieno quella che è può essere definita un’opera d’arte totale. Wagner li assisterebbe esterrefatto probabilmente.
Quando i nostri decidono di intonare quella che è una delle loro canzoni storiche Thom ha seri problemi a superare le nostre voci. È il momento della venerea “Karma Police”. Sul finale la lasceranno cantare solo a noi: da brividi e non aggiungo altro.
Prima di abbandonare per la prima volta il palco doppietta elettronica con “Feral” e “Idioteque” suonate una dietro l’altra. Un colpo doppio dall’immane potenza per poi darci un attimo di tregua, prima che i nostri tornino con l’inaspettata “Airbag” che genera il tripudio fra il pubblico fiorentino. Poi c’è tempo per la stra-citata dedica a Berlusconi prima di “The Daily Mail”; la desolata crisi interiore di “How To Disappear Completely”, commovente ballata ritornata dal passato di “Kid A”; poi suoni più ruvidi prima di lasciarci per la seconda volta con “Bodysnatchers” e poi l’ormai storica “Planet Telex” per ritornare di nuovo indietro nel tempo per la gioia dei nostalgici.
Il concerto poteva concludersi anche così, ma tutti sappiamo che manca qualcosa. Tutti sappiamo che i Radiohead non ci possono lasciare così e tornano sul palco a riordinare quello che ancora dev’essere sistemato.
“Give Up The Ghost” è il primo brano dell’ultimo spaccato della straordinaria esperienza che sta passando.
È il momento di “Reckoner”. Ho i brividi: la bellezza ci sta pervadendo. Si muove dentro e la sento, è più che tangibile. Non piango, ma quasi. Gli occhi sono bagnati, ma non piango e intanto qualcuno mi osserva. Sono praticamente in trance, canto e non canto e il ricordo eterno di uno dei sorrisi più intensi della mia esistenza. Manca veramente pochissimo all’epilogo ormai, lo so, va bene. Va tutto più che bene, ogni scelta, ogni attimo, ogni cosa è destinata all’immortale.
L’ultimo brano ci aspetta, ma prima un tributo, o più probabilmente una vera dichiarazione d’amore ai R.E.M. con un frammento di “The One I Love” collegato ad una mai così ritmata “Everything In Its Right Place”. L’ideale conclusione di un viaggio di oltre 2 ore, gli ideali punti sospensivi per una storia senza fine, l’ideale immagine per chiudere un’esperienza vitale.
Ogni cosa è al suo posto. Almeno per stanotte.
Autore: Franco Galato
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