Ma cosa intendeva veramente dirci su Dylan quel matto di Todd Haynes?
Don’t look back. ‘Cause I’m not there. Biografia per immagini a fuoco. Prospettive e spezzoni. Todd Haynes e le molte vite di Bob Dylan. Un percorso che il regista conosce bene, al punto da ricucire pazientemente le tante storie rimaste in giro sul suo conto.
Del ragazzino folk adepto di Woody Guthrie. Del menestrello errante tra palchi e caffè di New York. Del poeta che legge e riscrive i maledetti. Del dissoluto artista disilluso, epigono di Jeames Dean e Marlon Brando, capace di sfidare i Beatles e farseli amici diventando materia prima nel tritacarne pop dei sessanta. Dell’uomo alle prese con la fine di una storia, del sangue che resta “on the tracks”. Della discussa conversione, della pace leggendaria di un orizzonte polveroso, sul treno che parte da enigma per andare chissà dove. Dell’immagine e del presente assoluto. Senza mai guardare indietro. Piuttosto dentro, nel magma della memoria popolare. Il lungo e confuso rapporto del menestrello di Duluth con la macchina da presa. Un flusso animato ricoperto di specchi che rimanda a pezzi, e in pieno, la sua vena sfuggente. Il movimento si addice alla personalità, e così la prospettiva consente di giocare con lo sguardo, mescolando,al solito, gli elementi. Frames di un puzzle alla ricerca del codice, fuori dai canoni, disperso nell’irrisolto fluire della ripresa. Sulle tracce di Bob, un movimento straniante, costruito su indizi e molliche di pane lasciate come pezzi sbocconcellati sullo schermo. Lungo un never ending film. Come se Spike Jonze provasse un’altra esperienza dall’interno, e al posto di essere John Malkovich scegliesse di violare intrecci di scale mobili a chiocciola nella testa di Bob Dylan. Zappando nell’immaginario visivo del signor Zimmermann.
ANNI SESSANTA.SWINGING LONDON. ELVIS. BEATLES. VIETNAM. Un fotogramma riporta Bob alle prese con dei cartelli. Sono tanti, e seguono il testo di un blues sotterraneo nostalgico. Il ritmo incalza e i cartelli scorrono. La semiotica non è un’opinione, ma un curioso scherzo in barba alla struttura dei videoclip. Dylan non canta. Mostra parole. Una per volta. Ognuna su un cartello. Non è un video. Non è un sottotitolo. E non è un cazzeggio. Piuttosto è uno sguardo sulle potenzialità inesplorate della forma canzone. Un messaggio che gioca con i linguaggi. Dylan si muove in perfetta sintonia con i suoi tempi. Anzi. Li mette su pellicola sperimentale. Sono i simbolismi che ha sempre amato, la materia rima del suo modo di comunicare. Il video in questione fa parte del documentario di Pennenbaker, “don’t look back”, diario della fortunata tournee in Inghilterra. Stesso lavoro, altro fotogramma. Dylan risponde ad un’intervista. È una star assediata. Gli anni sessanta sono al culmine. Il tour de force incalza come il ritmo.
Bob è in bianco e nero. La sciarpa stilosa finirà sulla copertina di blonde on blonde. Lui deraglierà a bordo di una motocicletta finendo dritto a Woodstock. Per i basement tapes.
Intanto le immagini continuano. Risponde ai giornalisti. Li disorienta. Preferisce sfuggire alle cartoline preconfezionate che cercano di cucirgli addosso. “Qualcuno dice che io sono un poeta”. You’re a liar. La camera gira e finisce per riprendere se stessa. Il fantasma dell’elettricità che animava la mesmerica “visions of johanna”, proprio da Blonde on blonde, è un verso chiave. Serve a capire l’inafferrabile e continua mutazione dell’artista, il fluire delle sue esperienze e dei suoi ambiti. Inafferrabile come l’anima. Elettrica e pericolosa, inclassificabile. Tesa ed elastica. È il disco del fantomatico suono al mercurio, il sound che ossessionava Dylan. Il disco in cui più che in ogni altra occasione prende le note lanciandosi nelle canzoni senza avvisare gli strumentisti. Mercurio, che cambia consistenza a seconda della temperatura. Suoni. Immagini.
ANNI SETTANTA. Dylan passa alla regia. 1977. Renaldo e Clara, cinque ore di girato surreale e onirico. Il capo e la coda si mescolano senza una reale struttura. Episodi sullo stato dell’arte. Canzoni e prospettive, appunto. Un lavoro improntato sulla rolling thunder revue, tournee del 1975 allestita come un giro colorato di folli saltimbanchi e zingari ubriachi. Nel film c’è Bob con una maschera trasparente, la stessa che vedremo sulla faccia di Richard Gere nel pezzo di I’m not there dedicato alla leggendaria figura di Billy the kid. Un’altra mollica. Su quel lavoro, passato senza troppa cura tra la noia dei critici e la bava dei fans, è lo stesso Zimmerman a spargere polvere di senso: “L’arte è il moto perpetuo dell’illusione. Lo scopo principale dell’arte è l’ispirazione […] nella quale la maschera è più importante del volto”. In realtà ogni pezzo rimanda ad una concezione personale e indipendente dell’arte. Dylan si lascia prendere dal vento per diventare materia sottile, polvere a granelli nel forziere antico e immutabile della tradizione orale. Più a fondo del folk. Nel sogno malinconico di “Pat Garrett e Billy the Kid”, il film di Knocking on the heaven’s door, girato da Sam Peckinpah, del 1973, storia di una leggendaria amicizia sulla frontiera dell’ovest. In quel crepuscolo western Dylanintepreta il surreale “alias”, personaggio ironico in un contesto aspro e onirico. Sono le lande brulle che Haynes adopera per lanciare senza meta il carro merci, via, tra le praterie e i deserti americani.
Dopo la parentesi di Hearts of Fire, moscio film degli ottanta con Rupert Everett, arriva Masked and Anonymous. Di nuovo, l’enigmatico Bob interpreta un personaggio scritto da lui stesso insieme al regista Larry Charles. È Jack Fate, una vecchia gloria, un bluesman silenzioso e obliquo che rimette in piedi tutti i dubbi sul conto dell’inafferrabile Dylan. Ogni volta che compare, non si riesce a immaginare un che di interpretazione. Ogni volta se stesso, ogni volta personaggio.
L’inquadratura propone una carrellata di personaggi ambigui e misteriosi. Thomas Eliot. Ezra Pound. Sono le scene iniziali di “I’m not there”. E quello è un lungo e derelitto vicolo suburbano. Parata di reietti e fantasmi sublimati dalla visione letteraria di Bob. Le molliche del regista sono tante, tutte sparse ai quattro venti. Ma il metodo è la chiave giusta per intersecare i mondi e i tempi di questa storia. citazioni e punte sibilline, frasi e raccordi. Tutto torna. Come le frasi che arrivano dalle tante interviste rirpese da Haynes, dal vero Dylan ai sette simulacri del film. “quello che conta – spiega in uno dei suoi tanti qui e ora – è quello che sta accadendo adesso”. “Io accetto il caos – sembra dire a spettatori perplessi , disorientati da tanta materia – ma non sono sicuro che il caos accetti me”.
In fondo anche senza capire, l’importante è esserci. Riempirsi di qualcosa. “Il silenzio è quello che terrorizza di più la gente”. Il film riporta agli occhi la sensazione che da quella cantina, teatro di lavoro per i “basement tapes” dopo l’incidente che apre e chiude il film, Dylan non sia più uscito, sottratto al mercato globale dell’immagine dove si riaffaccia sporadicamente. Senza protestare. E senza lasciare troppe tracce. Non troppo comprensibili. Il treno intanto corre sulla strada di ferro. “Dove te ne andrai?” – “nel primo posto che non conosce il mio nome”. Perdere contorno, lasciarsi rincorrere senza indizi. Fuori dall’immobile. Il cinema come illusione di movimento . Illusione di presente e di realtà. Ripetizione meccanica fuori tempo. Il titolo di coda di questo pezzo? È del cinico e romantico Dylan – Rimbaud, sull’immagine bianco e nero di Bob che fluttua nell’aria attaccato ad una corda. “Le sole cose naturali sono i sogni, che la natura non po’ toccare con la decomposizione.”
L’incertezza surreale dell’immagine. Il tempo di guardare, appena. Il tempo di ascoltare la canzone che gli è valsa l’Oscar, per il film “Wonder boys”, storia ispirata a Salinger e al suo “catcher in the rye”. La canzone è definitiva: “Things have changed”, si chiama. “Signori – ammonisce Dylan – non alzatevi. Sono solo di passaggio.”
Autore: Alfonso Tramontano Guerritore