Dire che internet sarà il becchino delle sale cinematografiche (e della tv) è una profezia spiazzante che si può anche azzardare. Ma, anche se non avrà davvero il potere di soppiantare il grande schermo, gli effetti di internet sull’universo cinematografico sono molteplici e profondi. La visione di film in streaming a pagamento ha creato colossi come il sito Netflix che negli Usa gestisce un mercato importante in cui è compreso anche lo streaming di prodotti televisivi. Il tratto più significativo delle nuove dinamiche della visione è il collegamento tra più media: reciprocità più che competizione. I casi sono molteplici. Il regista inglese Chris Riley per esempio ha girato un film per celebrare i 50 anni del viaggio di Gagarin dal titolo “First Orbit” (nella foto in pagina la locandina) che è diventato il video più visto della storia di Youtube e ora può vantare questo primato davanti a eventuali finanziatori per aspirare alla distribuzione classica.
Non mancano episodi opposti di cineasti esperti che aprono al web, come Ridley Scott che con “Life in a day” ha creato un montaggio di 80.000 video girati tutti lo stesso giorno e caricati su Youtube : l’opera è stata poi proiettata al Sundance Festival in contemporanea con la Web Tv e il canale televisivo del festival di Redford. Il concetto di distribuzione multipiattaforma su Internet e Pay tv è stato sollevato qualche mese fa da Aurelio de Laurentiis che, con questa strategia, vuole rendere partecipe delle sue pellicole un pubblico riluttante al rituale della sala (e combattere così la pirateria che crea perdite ingenti). Ma la rete è un razzo propulsore per l’economia del cinema indipendente. Il caso “Paranormal Activity” ne è una dimostrazione lampante: costato qualche decine di migliaia di dollari, è stato distribuito dalla Paramount testando l’interesse gradualmente tra gli internauti, fino ad arrivare ad un incasso finale di 100 milioni e più. La distribuzione italiana potrebbe fare lo stesso, ovvero sondare via web la predisposizione del pubblico verso un determinato tipo di film (low-budget magari, un’utopia in Italia) prima di farlo approdare in sala, in modo da aprire il varco a prodotti poco forti.
Ma il web non è solo un modo per smussare le invalicabili asperità della distribuzione con siti come Qooid si ha a disposizione un social network per condividere idee di ogni genere (narrative, video, musicali) da cui può nascere una collaborazione tra utenti che scoprono di avere una sensibilità comune, e un film potrebbe partire grazie a questa piattaforma. Sull’italiano Userfarm.com è possibile partecipare a competizioni che mirano a trovare il miglior video pubblicitario per un prodotto, così come è successo sul portale Mofilm che ha indetto un concorso per selezionale il miglior commercial da mandare in onda al Superbowl.
Tornando al cinema, i cinefili hanno numerose piattaforme per scovare nuove visioni a prezzi contenuti: Mubi, Popcornflix, Snagfilms. Lo stesso Youtube, che finanzierà un centinaio di canali professionali nel prossimo anno, dà la possibilità ad abitanti di Usa, Canada e Uk di noleggiare online film. D’altronde se il direttore attuale dei Cahiers du Cinéma, Stephane Delorme, è un classe 1974, come si può non sospettare che vada a curiosare su internet alla ricerca di qualche sconosciuto regista a cui dedicare la copertina della sua celebre rivista? Per Godard su centomila sequenze online solo tre di queste sono interessanti per la metà, e sempre per il maestro della Nouvelle Vague il web è uno spazio osteggiato “da sacerdoti chiamati server, gestiti a loro volta dalle aziende”. Intanto, oltre a Scott, altri registi noti hanno avuto rapporti con la rete: Lynch ideò 10 anni la serie Rabbits solo per il suo sito, lo stesso David di Inland Empire ha curato la regia in diretta di un concerto dei Duran Duran trasmesso in streaming, ma anche il compianto Theo Anghelopulos ha regalato il suo “La polvere del tempo” per i primi 250 iscritti alla pagina facebook del film.
Al di là di ogni monito godardiano, il discorso economico farebbe propendere a favore dell’utilizzo della fruizione on-line, soprattutto per paesi troppo ripiegati sul mercato interno come l’Italia che esporta soltanto 20 milioni di euro del suo audiovisivo rispetto al mercato del Regno Unito che vende immagini nel mondo per un miliardo di euro. Se si aggiunge che ancora il 43% degli italiani non ha accesso ad Internet, la stessa platea nazionale contiene un potenziale inespresso.
Autore: Roberto Urbani