Paper Moon, una pillola di saggezza musicale prodotta dalla Truhart per Cohen & the Ghosts.
Quando si lancia nello stagno un sasso e la luna si riflette su di esso, tanti piccoli circoli si diramano, susseguendosi e sfaccendando l’immagine, questo stagno è a Baton Rouge in Louisiana, e si trova nel giardino di Cohen Hartman che, con il suo gruppo di allegri strimpellatori, fanno a gara di ricordi ed imprimono storielle folk- country e folk- rock, su di un libricino dall’animo blues. Raccontare il male delle cose come se si facesse una gita tra amici, niente di più possibile per il gruppo in questione!
Un groviglio di voci da gospel talora a supportare gli arrangiamenti strumentali, fa la differenza. Viene in mente una Final Fantasy band che prepara la torta di mele, talora le melodie assonanti e gentili dei Bell Orchestra intenti a mangiarne qualche fetta!
Ogni singola traccia ha una sua magnifica introduzione, eloquente e gentile, pare rianimato, l’animo sadcore degli Smog di Doctor came a down, con una luce di visione dissacrante alla Elliott Smith che sbeffeggia i Violent Femmes, e un recupero alla Nick Drake che della sua di luna (rosa) stavolta ne fa qualcosa di più effimero e allegramente soave.
Bellissima la cantata Ghost, con un corale che”volteggia” attorno ad un banjo sempre presente, sottocutaneo. Spirito ed ironia rinfrescano nella traccia “Cold war blues” (…il primo cerchio di acqua inizia a dissolversi !), un fantasma appare canticchiando un ritornello che gioca con le chitarre, i cui riff acuti si alternano a basso e voce, sottolineano una camuffata malinconia, ecco il blues della luna di cartone.
Un folkrock profondo si dirama come il cerchio nell’acqua dello stagno, in “No for fear”, dove una batteria laconica su di un unico rullante e grancassa si lascia stuzzicare dallo xilofono e da un’armonica in dissonanza, leggera come una fata la chitarra assorta negli anni 50’, di un lead languoroso quasi naif esaltato da una voce profonda.
Imperversa l’armonia dei semplici ed incisivi tintinnii di chitarra alla Songs:ohia con l’incedere strumentale di un Elliott Smith del periodo virtuoso di Figure8. Tamburelli, viole e violini, arpe e campanelli, esaltano il folleggiare melodico, in un orchestrazione da strada dall’ impronta romantica folk, come se gli Iron & Wine giocassero a fare del blues con Danny Elfman.
Un bel disco a mio avviso, per un esordio indie d’eccezione e tante immagini sognanti da imprimere in memoria, senza fronzoli eccessivi.
Autore: Lorenza Ercolino
www.myspace.com/cohenbr