Li avevamo conosciuti nel 1996, al compimento del loro primo anno di collaborazione, sotto il nome di Zubi Zuva, quando la Tzadik di John Zorn dava alla luce il loro “Jehovah” che già ci aveva lasciati di stucco. Il trio vocale (solo e rigorosamente vocale, rispettivamente: alto, tenore e basso) capeggiato da quel Yoshida già batterista militante nei Ruins, torna a presentare dal vivo, in questa data italiana in cartellone per la rassegna “Mosaico & Miraggio” (14esima edizione di “Angelica”, il Festival di Musica Internazionale che si svolge tra Bologna e Modena), parte del repertorio di quell’album e diversi altri brani sulla stessa linea d’onda.
La cornice della chiesa sconsacrata, convertita ad un sapere libero da dogmi, è la più adatta all’incontro ravvicinato della serata: siamo davanti ad un esempio unico che dovrebbe ammonire i musicanti di mezzo mondo e forse, chi può dirlo, di fronte agli esemplari più evoluti del genere umano. E allora, tanto per iniziare bisogna prepararsi spiritualmente, concedersi qualche sorriso e giammai quelle risate da rivista (che in questa occasione hanno purtroppo rischiato di saturare l’atmosfera) perchè, bizzarria a parte, c’è da rattristarsi e da pensare che il peggio è nostro se nella gran parte dei casi non riusciamo ad abituarci o anche solo a venire in contatto con musica del genere. In secondo luogo bisogna sturarsi le orecchie, medicarle da tutta la robaccia (e non) ascoltata dal momento della loro attivazione e magari fingere una sorta di “amnesia sonora”, purchè il pentimento sia autentico.
I nostri cantano, per dire che usano la voce e non gli strumenti, ma emettono suoni quanto più distanti da qualsiasi forma di canto o di canzone da noi conosciuta. Il ritmo ora concitato, ora solenne e meditativo, i pianissimo e i fortissimo dosati in modo magistrale, il contrappunto audace, la precisione esemplare anche nelle esecuzioni più frenetiche e la sincronia millimetrica nelle pause più rapide (nemmeno se un redivivo Furtwängler si nascondesse a dirigerli dalla buca del suggeritore), sono il rovescio di una medaglia fatta, a prima vista, di un’impatto visivo ironico (Yoshida in tutina viola e calzini a righe arancioni), di una mimica a metà tra la parodia di un cartone animato (ovviamente made in Japan) e una festicciola di bambini ingenui, il tutto a dimostrazione del fatto che se l’impressione è quella d’avere davanti un gruppo di lavoro del nosocomio di Tokyo, sfuggito alle grinfie degli infermieri, dobbiamo invece renderci conto di quanto studio ci sia in realtà alla base della loro performance.
Per fare un paragone azzardato, potrebbero avvicinarsi agli Zu, qualora questi canticchiassero i loro temi dopo una notte brava. Ma Yoshida & co. sono anche più eterogenei nelle forme proposte e il loro è stato un saggio di come si possa essere totalmente innovativi e coraggiosi nel proporre un sistema estraneo alla nostra conoscenza: un coraggio così l’avevamo visto solo nella dodecafonia di Schönberg, nell’intonarumori di Russolo, nelle svariate composizioni di Cage o nei campionamenti di Le Bars. Eseguono ‘Zubi Zuva Hymn’, profanando il concetto di canone a tre (e non del canto gregoriano, da altri chiamato in causa) e se presentano un “brano tradizionale giapponese” è solo per demolirlo ma con cognizione di causa. Ripropongono ‘Cherenko’, ‘Zubi Zuva Theme’, ‘Breathing’ e ‘Europe’ (ossia il viaggio tra le città europe attraverso una sintesi di luoghi comuni resa in suoni e versi parodistici: “London London…” al suono del Big Ben, “Berlin Berlin…” a mo’ di marcia militare, e ancora “London, Liverpool, Birmingham, Glasgow…” come un coro di hooligans) e offrono il meglio nella non-imitabile, non-ripetibile ‘Bita Vita’, territorio proibito di questi tre scienziati pazzi, portavoce di una cultura tanto distinta dalla nostra, i quali abbandonano il palco amplificando il suono di un palloncino che si sgonfia.
Tutto uno scherzo, un gioco infantile, non per prendere alla leggera la musica ma per elevare a forma d’arte, con sapienza, anche le espressioni meno seriose ed ingessate, chè tanto si sa, non è l’abito a fare il monaco.
Autore: Luca Irwin Fragale