Da quarant’anni sulle scene, gli Hoodoo Gurus possono essere annoverati tra i maggiori esponenti della scena rock australiana, non solo per l’alta qualità di dischi epocali quali “Stoneage Romeos”, “Mars Needs Guitar”, “Blow Your Cool”, “Purity Of Essence”, solo per citarne alcuni, ma anche per essere tra i pochi gruppi capaci di raggiungere un successo su vasta scala, che gli hanno permesso di piazzare ben nove album nella Top 20 di ARIA (Australian Record Industry Association), nove singoli nella Top 40 australiana, una serie di album multiplatino e un’introduzione nella ARIA Hall of Fame. Sono un punto fermo nella storia del rock’n’roll australiano e internazionale.
Da poche settimane hanno pubblicato un nuovo album dal titolo evocativo di “Chariot of the Gods” (BigTime/EMI) che mostra come il quartetto di Sydney (Dave Faulkner/voce e chitarra, Brad Shepherd/chitarra, Rick Grossman/basso e Nik Reith/batteria) attraversi un rinnovato stato di grazia messo ben in evidenza dal talento cristallino del songwriting di Dave Faulkner per nulla scalfito dal trascorrere del tempo, come dimostra l’alta qualità delle canzoni presenti nel disco.
Proprio il frontman dei Gurus ha risposto alle nostre domande
Partirei proprio da quando hai scelto di chiamare la band Hoodoo Gurus quasi a sfidare la “malasorte”. Direi che ha funzionato sia per il successo ottenuto e sia perché siete ancora estremamente vitali. All’inizio pensavi di avere una carriera così lunga?
“Naturalmente no. Quando abbiamo iniziato l’unico pensiero che avevamo era quello di suonare una volta a settimana in un piccolo pub, probabilmente suonando soprattutto canzoni altrui. Scegliemmo cover insolite da suonare, non tra quelle della Top 40. Una volta che abbiamo iniziato a scrivere le nostre canzoni e a provarle non abbiamo mai fatto molte cover e, senza dirci nulla, abbiamo percepito che stavamo facendo qualcosa di speciale e che forse saremmo piaciuti a più persone rispetto alle cento di un un piccolo pub. Anche così, non c’era un piano di carriera, eravamo solo concentrati sul fare musica ed è stato così da allora. In qualche modo, sono passati quarant’anni e lo stiamo ancora facendo”.
“Chariot Of The Gods” arriva a ben dodici anni di distanza dall’ottimo “Purity Of Essence”. Quali sono stati i motivi che vi hanno impedito di pubblicare un album prima di oggi?
“Il fattore maggiore è stato che dopo l’uscita di “Purity Of Essence”, il nostro batterista di lunga data, Mark Kingsmill, ha deciso di ritirarsi. Non ce l’ha detto per alcuni anni ma, da quando l’ha fatto, ci sono voluti ancora un paio d’anni prima che finalmente se ne andasse. Il resto di noi sentiva ancora di avere più cose da dire a livello creativo, così abbiamo cercato un sostituto e tutti e tre eravamo d’accordo che Nik Rieth fosse la scelta migliore, anche se abbiamo provato qualche altro batterista in quel periodo. Dopo 18 mesi di assenza dalla musica, Mark ha deciso che gli mancava suonare e ha voluto riunirsi con noi. Sono passati altri dieci mesi prima che Mark cambiasse ancora una volta idea e si ritirasse, questa volta definitivamente. Abbiamo avviato audizioni per altri batteristi, ma Nik è sembrato essere ancora il più adatto a noi. Sapevamo che, se volevamo continuare a suonare come gruppo, dovevamo incidere un nuovo album, altrimenti che senso aveva? Inoltre, avendo finalmente eliminato Mark dal nostro sistema, eravamo finalmente pronti a creare una nuova chimica musicale con Nik. Questo processo di scoperta è stato una rivelazione”.
Quanto è stato difficile lavorare al nuovo disco in tempo di pandemia? Avete dovuto cambiare il vostro abituale metodo di lavoro oppure no?
“Abbiamo iniziato a lavorare all’album alla fine del 2019, prima del Covid, ma avevamo già deciso di procedere in modo un po’ diverso: dato che non avevamo mai lavorato su una nuova canzone con Nik prima d’ora, ho pensato che avremmo dovuto iniziare l’album come una serie di singoli e lasciarlo sviluppare lentamente piuttosto che farlo nel modo normale, quando cioè si scrivono tutte le canzoni, si provano e si fanno i demo e poi si registra tutto insieme. In questo modo abbiamo continuato a scrivere e provare le canzoni tra una registrazione e l’altra, e l’album si è sviluppato organicamente. L’unico effetto del Covid è che tutto ha richiesto molto più tempo perché abbiamo dovuto cancellare le sessioni in vari momenti e andare in rigoroso isolamento, a volte per alcuni mesi. Non abbiamo mai provato a lavorare sulle canzoni via Internet. È troppo artificiale per una rock band viva e vegeta come la nostra. Abbiamo bisogno di stare insieme in una stanza e sentire l’energia l’uno dell’altro, aggiustando le nostre parti in tempo reale”.
La copertina di “Chariot Of The Gods” mostra i segni esistenti di civiltà perdute come quella dei Maya, sovrastate da un disco volante fanno pensare al libro (quasi) omonimo di Erich von Däniken. Perché hai scelto questo titolo e questa immagine se poi non vi sono riferimenti molto espliciti all’interno delle canzoni?
“Beh, c’è la title track, quindi questo è un riferimento specifico! La canzone di Brad, “I Come From Your Future”, cattura anche l’aspetto di sciocchezze fantascientifiche di ciò che Erich Von Däniken spacciava nel suo stupido libro, sebbene Brad stia anche rendendo omaggio ai film di fantascienza e a Ed Wood, notevole autore di b-movie. “Chariot Of The Gods” è un titolo epico per un album epico. La title track è in realtà una parabola. Sembra che stia descrivendo un’invasione della terra da parte di alieni ostili ma, metaforicamente, sto descrivendo la colonizzazione europea di qualche secolo fa e il modo in cui hanno soggiogato e quasi annientato le culture indigene ovunque siano andati. In Australia, gli inglesi arrivarono con strani velieri, indossavano abiti esotici sulla loro pelle pallida, portando con sé cannoni mortali, moschetti e malattie sconosciute. Agli abitanti aborigeni dell’Australia deve essere sembrato che gli invasori fossero sbarcati da Marte. Una storia horror fantascientifica che prende vita. Volevo che il pubblico moderno potesse immaginare come si sarebbe sentito se avesse affrontato la stessa situazione”.
In “Early Opener”, la breve intro che apre l’album, ti si sente cantare una vecchia hit come “Come Anytime” davanti ad un pubblico che sembra non prestare attenzione. Percepisci che oggi il pubblico sia poco attento alla musica di qualità?
“Stavo deliberatamente facendo una satira sul modo in cui alcuni critici ci hanno liquidato o ignorato per molti anni, ed è stato divertente ritrarmi come un uomo finito che nessuno nota al bar. Le voci che sentite sono alcuni dei miei amici della vita reale in un pub dove andiamo spesso il venerdì pomeriggio. Un giorno ho portato con me un registratore per catturare l’atmosfera”.
Un altro segno distintivo del nuovo album è l’eclettismo espressivo che ha sempre caratterizzato i vostri dischi e la quantità di potenziali singoli presenti, alcuni già pubblicati in precedenza, quasi come se foste tornati all’epoca di “Stoneage Romeos”
“Pensiamo sempre che tutte le nostre canzoni siano singoli e di conseguenza abbiamo fatto alcune strane scelte di singoli nel corso degli anni: “Big Deal”, da “In Blue Cave”, ne è un ottimo esempio. A cosa stavamo pensando? Per quanto riguarda questo album, abbiamo solo fatto quello che facciamo sempre: scrivere le canzoni che ci emozionano, parlando delle cose che sono successe nelle nostre vite o nel mondo in generale. A volte ciò che facciamo ha un buon feedback, a volte no. Non possiamo prevedere come reagiranno le persone che ascolteranno le nostre canzoni, possiamo solo seguire la strada in base a come ci sentiamo noi stessi. Ognuno di noi ascolta un sacco di musica diversa così la nostra tocca un sacco di stili differenti. Registriamo qualsiasi cosa suoni bene alle nostre orecchie e possa soddisfare i nostri gusti”.
Il primo brano che hai scritto per l’album è stato “Answered Prayers” che tratta un tema abbastanza duro come l’amore malato, in cui la violenza caratterizza il rapporto uomo/donna. Cosa ti ha spinto a scrivere un brano come questo e cantarlo in prima persona?
“Ho visto questa stessa situazione tra alcune persone che conosco bene, per cui c’era molto sentimento represso in quella canzone. Ho voluto cantarla in prima persona in modo che tu, ascoltatore, avessi a che fare con il comportamento tossico che stavo descrivendo come se stesse realmente accadendo a te”.
Altro brano abbastanza diretto è “Hung Out To Dry Dry” in cui te la prendi direttamente con Donald Tump e la sua distorta “visione politica…”
“Un altro brano scritto dal punto di vista della prima persona, in modo che diventasse personale – un confronto tra me e Trump – piuttosto che un semplice lancio di pietre da una distanza oggettiva. Volevo che il mio disprezzo per quell’uomo fosse palpabile per l’ascoltatore. Spero che Trump stesso l’abbia sentito. Mi piacerebbe che si sentisse insultato. “Incollati i capelli un’ultima volta…”. Ho riso quando ho scritto quel verso”.
“My Imaginary Friend” è un’altra delle mie canzoni preferite in cui la cosa che mi colpisce di più è come tu riesca a rendere leggero, con una melodia pop, un tema di per sé cupo.
“Esattamente. È qualcosa che ho fatto in molte delle mie canzoni, ma a volte la brillantezza della melodia ha distratto la gente dal tono oscuro del testo. Mi piace nascondere queste cose alla gente perché danno consistenza al testo”.
È facile immaginare che brani come “Carry On” o la stupenda “Settle Down” insieme a molte altre presenti nell’album, diventeranno ben presto dei “classici” del canzoniere degli Hoodoo Gurus. Quanto ti reputi soddisfatto di riuscire ancora a scrivere canzoni destinate a durare nel tempo?
“Sono molto orgoglioso del fatto che la mia creatività stia ancora fluendo fortemente e che io sia ancora capace di sorprendere me stesso dopo tutti questi anni. “Answered Prayers” è un esempio. Mi è sembrato pericoloso scrivere quella canzone e ne sono ancora un po’ spaventato”.
Voi siete sempre stati una band “on the road” e tra poco partiranno le prime date del vostro “40th Anniversary Tour”. Cosa devono aspettarsi i fortunati che assisteranno ai vostri concerti? Pensi sia possibile ipotizzare a breve un tour europeo, magari con qualche data italiana?
“Suoneremo canzoni prese da tutti i nostri dischi, come facciamo sempre, ma ci sarà una forte enfasi sulle canzoni del nuovo album. Abbiamo tenuto alcuni spettacoli prima dell’uscita dell’album e le nuove canzoni sono piaciute al pubblico anche se non le avevano mai sentite prima. Questo non succede sempre. Ci piacerebbe tornare in Italia l’anno prossimo come parte di un tour europeo più ampio. Per farlo abbiamo bisogno che alcuni festival ci prenotino per aiutarci a renderlo finanziariamente fattibile. Costa molto viaggiare dall’Australia e portare con noi un paio di roadies. Siamo anche un po’ troppo vecchi per sopportare la condivisione delle stanze d’albergo, così le nostre spese per il tour tendono ad essere più alte oggigiorno. Un paio di concerti nei festival farebbero un’enorme differenza. L’Italia è uno dei miei paesi preferiti al mondo e abbiamo bei ricordi di quando ci abbiamo suonato in passato, anche se ormai è trascorso molto tempo. Un ritorno in Italia da parte degli Hoodoo Gurus è una cosa che attendiamo da molto tempo ormai”.
https://www.hoodoogurus.net/
https://www.facebook.com/hoodoogurus/
autore: Eliseno Sposato