Si intitola Wrecking Ball, è il 17° album di Bruce Srpingsteen, il 10° con la E-Street Band, ed è un album bellissimo. Ma questo ormai, trattandosi di Springsteen, non fa notizia.
Colpisce, invece, data l’avanzata età di zio Bruce e di tutta la E-Street Band, che sia ancora un album fresco, ben suonato, ben prodotto, e con tanta energia e voglia di suonare.
Non ci aspetteremo certo da un musicista 63enne che ha dato e avuto tutto dalla musica che possa tirar fuori un album dal sound innovativo o diverso dal suo solito stile (eppure The Rising, album relativamente tardivo della sua carriera, è stato il suo lavoro più sperimentale), e nemmeno che sia il più grande dei suoi capolavori: ma se non si trattasse di Springsteen ci saremmo aspettati un album anche mediocre, con poco da dire, classico LP di fine carriera.
Ma si tratta del Boss: quindi Wrecking Ball ha ancora qualcosa da dire, e qualcosa da aggiungere al già stellare repertorio di questo grandissimo della musica americana e occidentale.
Anzitutto, pur se in piena continuità con il suo riconoscibilissimo sound, Wrecking Ball appare come l’album più folk, traditional, e spiritual di tutta la sua carriera addirittura: Bruce vi immette pezzi che riecheggiano la musica celtica tradizionale, e continuano l’esercizio musicale cominciato con le cover di Pete Seeger (Easy Money, Shackled and Drawn, Death to My Hometown,We are Alive, di certo le perle più sorprendenti del disco), una emozionante ballata folk-country alla Ghost of Tom Joad, (Jack of all Trades) un paio di bellissimi pezzi gospel-soul (Wrecking Ball, Rocky Ground), pur senza rinunciare al sano e solido rock epico a cui ci ha abituati, consegnato per questo disco al singolo di lancio We Take Care of Our Own (forse il pezzo più “tipico” vicino al solito Springsteen) e alla sorprendente e forte This Depression.
E poi, proprio per questa gustosa varietà di stili, “Wrecking Ball” suona come uno dei suoi album più musicalmente vari, se ci aggiungete anche il traditional blues di You Got it e la rivisitazione di Land of Hopes and Dreams, mai finita in realtà in un album ufficiale ma uscita solo dal vivo per la prima volta col live a New York del 2001.
Fa allora notizia che questo album sia decisamente superiore al precedente “Working on a Dream”, non uno dei suoi migliori, e fa notizia perché chiunque poteva aspettarsi che persino il Boss, seppur certo lentamente e con stile, stesse avviandosi dolcemente al viale del tramonto.
E invece, la E-street Band suona da favola in questo disco, nonostante sia il primo album senza due dei suoi originari e leggendari componenti: Danny Frederici, stroncato da un tumore già da qualche tempo, e Clarence Clemmons, morto improvvisamente di ictus l’anno scorso.
Dal disco l’assenza non si avverte, ma dal vivo certamente si avvertirà, visto il carisma gigantesco e la scenicità del Ministro del Soul Clemmons, come affettuosamente Bruce lo chiamava davanti al pubblico.
E tuttavia, pur nel dolore del ricordo, l’album non cede alla nostalgia, ai vecchi tempi, alla senilità nemmeno per un attimo: l’energia vocale e sonora del Boss è quella di un ragazzino (e questo, di nuovo, non fa notizia, per chi lo conosce bene), la grinta anche di più, la voglia di parlare alla sua America pure.
E come è sempre successo fin qui, quando Springsteen è indignato, o incazzato, fa musica eccellente (come in The Rising, Magic, The Ghost of Tom Joad, Darkness, The River, Born in the USA) mentre quando è calmo o tranquillo o chiuso nei suoi affari familiari tende a un intimismo che non lo eleva ai massimi livelli (il già citato Working on a Dream, e Tunnel of Love, Lucky Town e Human Touch, ovvero gli album degli anni ’90).
I motivi per essere incazzato ci sono, e i cattivi sono quelli di Ghost of Tom Joad: le banche, i globalizzatori del denaro, i sanguisughe dell’economia. In Jack of all Trades si legge: “Il banchiere diventa sempre più grasso, il lavoratore sempre più magro, Ciò accadeva prima e succederà ancora e poi ancora un’altra volta, metteranno in gioco la tua vita, sono un jolly, un tuttofare e, cara, andrà tutto bene”. O ancora, in We Take care of Our Own: “Ho bussato alla porta dei potenti, ho elemosinato a cuori teneri diventati di pietra, tutte buone intenzioni essiccate fino all’osso, nonostante la bandiera sia ammainata dobbiamo prenderci cura di noi da soli”.
Insomma siamo di fronte al Boss migliore, il cantore epico della povera gente, della loro fatica e del loro orgoglio di vivere: il Boss degli anni ’70 di “Born to Run”, ma anche il Boss del risveglio americano post-twin towers di The Rising, il Boss anti-Bush di Magic, il Boss che racconta storie di piccoli eroi (come in Wrecking Ball, o in Easy Money), nella migliore tradizione americana folk di Guthrie e Dylan, il Boss che pur nella denuncia non rinuncia al messaggio di speranza che però non è illusione o falso mito ma è: “dobbiamo farcela da soli”.
Uno slogan quasi neo-proletario, e pur tuttavia attualissimo, l’ennesimo atto di amore di Springsteen per l’America dei disoccupati, degli emarginati, degli hispanicos, dei piccoli contadini, dei derelitti puniti dalla legge, quell’America che non smette di essere rappresentata con forza immaginifica da capolavoro letterario nelle sue canzoni che sono ormai la migliore antologia di storia vissuta americana dagli anni ’60 ad oggi.
Tracklist
1. We Take Care of Our Own
2. Easy Money
3. Shackled and Drawn
4. Jack of All Trades
5. Death to My Hometown
6. This Depression
7. Wrecking Ball
8. You’ve Got It
9. Rocky Ground
10. Land of Hope and Dreams
11. We Are Alive
Autore: Francesco Postiglione
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